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11 dic 2013

La fine di Bossi

di Luciano Caveri

Matteo Salvini, classe 1973, da ieri è il nuovo segretario della Lega. Sconfigge, con un risultato nettissimo (l'82 per cento dei voti), il vecchio leader Umberto Bossi, che esce di scena malamente, pieno di rabbia e rancori, mentre la Magistratura sta chiudendo il cerchio sulle ruberie in cui in primo piano ci sono, tra gli altri, i due figli più grandi del Senatùr. Posso dire di aver visto larga parte della parabola della vita politica di quest'uomo: dalla sua rapida ascesa nell'agone della politica italiana sino a questa sua vertiginosa caduta, che segna una fine ingloriosa. Quando Salvini nasceva, Bossi era un trentenne che militava nell'estrema sinistra e si arrabattava con diversi lavori. Nel 1979, anno delle prime elezioni europee a suffragio universale, incontrò per caso l'esponente unionista, Bruno Salvadori, più giovane di lui di un solo anno e che era in quel momento consigliere regionale dell'Union Valdôtaine. Salvadori, che morirà prematuramente un anno dopo in un incidente stradale, era un autonomista di nuova generazione, che aveva aperto un filone di pensiero originale nel Mouvement. In quel momento era impegnato nel difficile cammino, non avendo avuto la Valle d'Aosta un seggio garantito al Parlamento europeo, di unire sotto la bandiera del suo movimento politico partiti alleati in tutta Italia per ottenere l'ultimo resto. Nasce un'amicizia e per Bossi scatta un'idea: portare in Lombardia le idee federaliste. Da lì inizia il suo cammino. Io conosco Bossi nel 1987 in Parlamento, quando, unico eletto della Lega Lombarda al Senato, diventa per tutti il Senatùr. Ruspante e rampante, gigione e furbo, svelto e tattico, "sfonda", negli anni successivi, con il suo movimento, e inizia anche la sua ascesa personale di leader unico. Io mantengo per anni rapporti cordiali, partecipando anche a manifestazioni della Lega, visto questo legame con l'UV nel ricordo del ruolo di Salvadori. Poi la Lega arriva, inattesa anche, in Valle d'Aosta, rompendo un tabù e Bossi mi ha sempre detto che questo avvenne malgrado la sua opposizione. Nel frattempo si monta la testa e si esaurisce la sua vena innovativa. L'abbraccio mortale con l'odiato e amato Silvio Berlusconi fa della Lega un partito, in contraddizione, perché cerca l'equilibrio impossibile di essere in contemporanea di lotta e di governo, allontanando pian piano l'entusiasta base elettorale e mostrando come il decantato federalismo fosse solo una bolla di sapone. "Roma ladrona" diventa - in negativo - "Roma doma", come dimostra un imbarazzante "poltronismo" nei gangli del sottogoverno. Lo aveva capito il grande politologo Gianfranco Miglio, che conobbi bene ai tempi della Bicamerale, consapevole come la Lega avesse tradito il sogno federalista e per questo - uno dei segni di un'involuzione autoritaria della leadership bossiana - fu insultato e umiliato proprio dal leader con quella volgarità ormai segno distintivo. Nel 2004 un ictus, su cui si sono fatti molti pettegolezzi, lascia Bossi gravemente offeso con un'emiparesi. Poi, botta conclusiva, la vicenda giudiziaria, cui accennavo, sulle spese folli della sua famiglia. Bossi esce di scena, questa volta per scelta dei leghisti stessi. E' un viale del tramonto drammatico, che colpisce sotto il profilo umano, ma purtroppo sul piano politico è un giudizio senza appello. Arriva Salvini e vedremo cosa farà. Cavalca un antieuropeismo confuso e un populismo ad effetto, che si allontana ancora di più - con una netta virata verso destra - dal filone federalista, ormai esaurito da tempo, che avrebbe dovuto essere percorso per coerenza con le origini. Vedremo come questo si concilierà con il lavoro dei presidenti di Regione di Lombardia, Veneto e Piemonte, ultima roccaforte del leghismo in crisi.