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01 lug 2014

Quando la vita non c'è più

di Luciano Caveri

Ci sono argomenti complicati di cui non è facile parlare. Mi riferisco a quel confine fra la vita e la morte, che tanto fa discutere in questi anni e che diventerà, anche ma non solo con l’allungamento della vita, un tema sempre più importante per i giuristi e per ciascuno di noi. Non mi riferisco solo all'eutanasia tout court, con il peso dei problemi legislativi che si sommano a questioni religiose e morali, specie in un'Italia che tentenna su ogni argomento delicato, ma anche a questioni solo in apparenza più semplici. E' il caso di Vincent Lambert, un infermiere francese di trentotto anni, tetraplegico da sei anni, dopo un incidente d'auto, e che si trova da allora in un stato vegetativo ritenuto irreversibile. Il Consiglio di Stato francese, con una sentenza drammatica, aveva deciso, sulla base della "legge Leonetti", dal nome del deputato proponente, che si dovesse subito cessare l’accanimento terapeutico (dunque nessuna "eutanasia diretta"), sospendendo alimentazione e idratazione forzate. La volontà del Lambert di non restare in vita senza nessuna coscienza era stata chiarissima e anche a questo si erano richiamati i giudici francesi in linea, per altro, con i medici curanti che confermavano che si è di fronte davvero ad una caso grave e illogico di accanimento terapeutico. Ma esiste una parte della famiglia del malato che si oppone alla sua morte e che ha avuto una decisione, in attesa di una sentenza sul caso, dei giudici della "Corte dei Diritti dell'Uomo" di Strasburgo cui hanno presentato ricorso e che ha obbligato - contro la decisione dei giudici francesi - a proseguire ogni pratica terapeutica per tenere Lambert in vita artificialmente. Giungendo persino a impedire che venga spostato dal luogo di cura, perché - specie i genitori dell'uomo - temevano che la moglie portasse il paziente in Belgio, dove vige invece una legge ad ampio spettro sull'eutanasia. Trovo che i giudici europei - precisiamo nel perimetro ben più vasto dell'Unione europea, che è il Consiglio d'Europa - abbia assunto una decisione su cui riflettere. Personalmente credo che sarebbe stato più logico, piuttosto che applicare questa sorta di "sospensiva", entrare subito nel merito della questione con la sentenza vera e propria. Non mi si può raccontare che ci fosse da fare chissà che cosa, visti gli aspetti preclari e cristallini di questa questione, pur nella tragicità degli eventi, che certo non vanno presi sottogamba. Specie perché - lo capisco - la decisione di Strasburgo peserà sulla futura giurisprudenza in merito. Questo conferma la necessità di avere leggi che consentano al malato di evitare che certe vicende finiscano nelle mani di beghe fra parenti, come sta avvenendo in questo caso. E proprio ieri, ad aggiungere elementi di discussione, la Corte d'Assise di Pau ha assolto, sempre in Francia, dall'accusa di avvelenamento, il medico Nicolas Bonnemaison, che aveva ammesso di aver aiutato a morire sette anziani malati senza speranza, per evitare loro inutili sofferenze, all'ospedale di Bayonne. Per quel che mi riguarda, se i medici in scienza e coscienza dicessero che nulla c'è più di fattibile per riportarmi ad una vita reale, sarei contro ogni forma di vita artificiale e ogni accanimento terapeutico sarebbe una violenza nei confronti miei e dei miei cari, che dovrebbero sempre e comunque rispettare quelle volontà da me espresse in un periodo precedente e con cognizione delle loro conseguenze. Non vorrei mai diventare un pacco postale in mano alla Giustizia e vorrei che finalmente ci fosse una legislazione europea seria, rigorosa e omogenea, che eviti quella "fuga" contro il dolore e la disperazione per avere una morte dignitosa. Ciò sta avvenendo da anni verso la Svizzera, dove l'eutanasia non è un tabù e ormai lì vanno a morire tre italiani al mese e penso che sia pure una stima per difetto.