Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
23 set 2014

Regionalismo, Roma e Aosta

di Luciano Caveri

Le inchieste sulle spese dei Gruppi dei Consigli regionali in tutta Italia e i molti Presidenti di Regione inquisiti, a vario titolo, hanno dato un colpo molto forte alla credibilità del regionalismo (e anche da noi si aspettano gli esiti). Questa circostanza, alimentata da una contemporanea reazione centralistica esattamente contraria al precedente moto pseudofederalistico, ha creato a sua volta un movimento mica da ridere, fatto di giuristi, giornalisti, imprenditori che hanno indicato e indicano sempre di più le Regioni come il peggiore di tutti i mali. Per altro, chi segue la storia del regionalismo dall'Unità d'Italia sino ad oggi, sa quanto è successo. Dal "no" iniziale a una nascita di Regioni, ai ritardi nell'applicazione del dettato costituzionale che le istituì, sino al livore anti-regionalista che andava e tornava: una vecchia storia, per non parlare dell'odio passato ed oggi crescente verso le autonomie speciali sino agli anni Settanta unico regionalismo sulla scena. E' indubbio che questo atteggiamento statocentrico sia rinvenibile - nella sostanza e non delle dichiarazioni di facciata che hanno spesso un altro verso - in una parte dell'azione politica del Governo Renzi, come uno dei segni tangibili del "nuovismo" che si trova ad interpretare. Ogni difesa del sistema regionalistico è talvolta difficile da sostenere anche per chi ne ha fatto una delle ragioni del proprio impegno politico, ma vale, al contrario, l'asserzione che se il regionalismo non funziona lo statalismo, cioè l'idea che un'invasività istituzionale dello Stato sia una garanzia che tutto funzioni meglio, fa sobbalzare e assieme preoccupa perché si tratta di una finzione senza fondamenta. La macchina dello Stato non è per nulla competitiva e certamente non in grado di prendere in pugno i poteri e le competenze delle Regioni, per altro esercitati con livelli di capacità ed efficienza assai diverse a seconda dei territori. A questo attacco in grande stile, che dura da una parte dell'azione del Governo Berlusconi ed è stata ancor più perseguita dal Governo Monti, il contrattacco regionalista sembra un fucile a tappo contro un'arma nucleare. Lo si è visto con la controriforma del Titolo V della Costituzione che riduce il regionalismo italiano a una sorta di macchietta e la clausola di salvaguardia per le Speciali rischia di essere un pannicello caldo o meglio una formula apodittica senza fondamento nel contesto complessivo. Uscito di scena il presidente dei presidenti, l'emiliano Vasco Errani - uomo di grande spessore politico e umano - per una piccola vicenda giudiziaria (ma forse c'erano anche questioni più politiche), il testimone del regionalismo è stato preso da Sergio Chiamparino, che la materia la conosce ma rischia di soffrire delle difficoltà di chi arriva sulla scena del delitto all'ultimo momento senza forse una piena conoscenza delle "puntate precedenti". Ma Chiamparino è un mastino piemontese e, se saprà evitare il rischio di ragionare da sindaco con quel municipalismo che spesso porta ad essere diffidente verso le Regioni, potrà contrastare - con alcuni presidenti di Regione o di Provincia autonoma consapevoli ed onesti - questa deriva che sembra far precipitare il regionalismo verso una disfatta. Non è un tema di poco conto, visto dalla prospettiva di un'autonomia speciale come quella valdostana, dove - in questi tempi difficili - il progetto delle opposizioni noto come "Renaissance", che tracciava una svolta nel governo della Valle, rischia di finire su un binario morto per l'aggressiva e per molti versi incomprensibile - a meno di scendere analogamente sul terreno delle illazioni - campagna di certi esponenti di Alpe contro l'Union Valdôtaine Progressiste, che è un venticello che tende, se non si avrà l'intelligenza di ripartire nella reciproca chiarezza, a diventar burrasca. E qualcun altro ne godrà, visto che prende un granchio chi ipotizza - rubo l'espressione ad un "progressista" di spicco - un «torna a casa, Lassie» (celebre film del cane pastore che torna dal suo padrone dopo mille vicissitudini). Altrimenti detto: non c'è nessun "bue grasso" da uccidere, perché non c'è, come avviene invece nella celebre parabola, un "figliol prodigo" in cammino verso la nota palazzina di Avenue des Maquisards. Ma eccoci di nuovo al tema generale: è vero che parte del regionalismo ha finito per svilirsi da solo nel giochino delle Regioni Ordinarie contro le Speciali, in cui la logica infantile è stata quella non di far salire di più l'asticella del regionalismo per tutti ma l'idea balzana e autolesionista di far scendere chi si trovasse più in alto. Tipo il famoso tipo che si taglia le p***e per far dispetto alla moglie. Sarebbe ora che ci fosse una grande assise del regionalismo, che dimostri che esiste un sistema responsabile, pronto a ripulirsi da tutte le scorie e le immondizie. Altrimenti la valanga arriverà implacabile, violenta e senza speranza di sopravvivenza. Altro che ulteriore devolution, come per la Scozia. Qui siamo fermi al "Roma doma".