Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
18 gen 2015

Napolitano lascia il Quirinale

di Luciano Caveri

Il caso vuole che oggi io sia a Roma, proprio mentre Giorgio Napolitano lascerà - attraverso il complesso cerimoniale previsto - la Presidenza della Repubblica. Per cui sarà più facile pensare a lui e alla sua scelta di dare le dimissioni, che rispetto e capisco in questa Capitale che digerisce in fretta i fatti della Storia, se non altro per la profondità temporale che si applica ad ogni angolo della città. A novant'anni è legittimo sentirsi stanco e pensare al tramonto della propria vita in un clima diverso dalla frenesia del Quirinale, specie in un'epoca in cui il vecchio Capo dello Stato si è trovato gravato da pesi così forti che avrebbero piegato la schiena a qualunque giovane. Gli auguro giorni sereni di "otium" operoso, come lo intendevano i latini, nella fortuna di un tramonto di una lunga vita, che lo ha visto come uno dei grandi protagonisti della Storia italiana, immune da quella macchina del fango, che ha cercato più volte di gettare discredito pure su di lui.

Nella mia logica personale dei "visti da vicino", che mi ha permesso per mia fortuna di conoscere molti dei Grandi della Repubblica, Napolitano è stato un esempio e pure un'amicizia preziosa. Ero capogruppo del "Misto" quando divenne presidente della Camera nel 1992 e resse per due anni quel ruolo nel pieno del marasma di "Tangentopoli". La frequentazione ravvicinata mi consentì di apprezzarne le doti professionali (la politica, con buona pace dei "borbottoni", ha una sua professionalità, che comporta studio e fatica) e umane. Poi io ero la "mascotte" della capigruppo ed il presidente - che non lesinava il suo sarcasmo con chi non gli risultasse proprio simpatico - ha sempre avuto con me un atteggiamento di simpatia. Così è stato anche al Parlamento europeo, quando eravamo gli unici italiani presidenti di Commissione. Specie a Strasburgo, quando facevamo le petit déjeuner assieme, visto che andavamo allo stesso albergo, così capitava di ascoltarlo davvero "dietro le quinte", mentre nelle occasione ufficiali non sbagliava mai una virgola con quel suo understatement con bagliori di ferocia per chi non capiva o fingeva di farlo. Esisteva in lui la scuola da cardinale del vecchio Partito Comunista Italiano, come altri che conobbi come Nilde Iotti, Giancarlo Pajetta, Ugo Pecchioli. Ma a questo si accompagnava uno spessore culturale non solo fatto dalla Politica, ma da quella logica da intellettuale a tutto tondo che ormai sta scomparendo con quella generazione. Vorrei qui ricordare la sua profonda conoscenza del Federalismo e fui onorato quando mi chiese di far parte della sua Associazione federalista, proprio considerandola una patente di quella serietà che non dispensava in modo così facile. Per questo mi era spesso capitato di cogliere in lui quella amarezza per il crescere nella politica, anche in ruoli importanti, di "parvenu" senza sostanza e pure di ladri. Lo votai con trasporto per il suo primo settennato e mi capitò spesso di incontrarlo. Sempre misurato e colto, ma - come mi è già capitato di scrivere - con sprazzi di umorismo partenopeo frammisto a quel distacco anglosassone, che gli ha creato odi e amori, come capita a molti politici di rilievo. Se ne va nel marasma di una situazione politica piena di inquietudini in Italia ed anche nella sua amata Europa. Nel Paese di navigatori "alla Schettino", lui - il Capitano Napolitano - non ha mai lasciato la nave incustodita nel mare in burrasca, mentre molti topi si mettevano in salvo o mentre l'equipaggio litigava. E' stato saldo sulla tolda della nave e come tale andrà ricordato. E io lo faccio con riconoscenza per quello che mi insegnato, sapendo - e spero che si potrà dire del suo successore al Quirinale - che aveva ben chiare le prerogative dell'autonomia valdostana e con lui avevamo garanzie verso rischi letali aleggianti.