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23 apr 2015

"Prendere o lasciare" e la politica italiana

di Luciano Caveri

Se metti assieme la nuova legge elettorale nota come "Italicum", che è una priorità ormai da 102 settimane (sic!), e la riforma Costituzionale che si aggira in Parlamento, in assenza per ora della prima deliberazione, il dado è tratto: esiste un disegno di centralismo statale (che non muterebbe neppure se il Senato restasse elettivo, ma neppure questo avverrà), cui corrisponde una logica di potere crescente del leader al Governo. Se non è un disegno autoritario, si può serenamente dire che nei progetti di Matteo Renzi ci sia una visione personalistica del potere, basata sull'esaltazione delle sue doti, sull'uso affabulatorio dell'attività governativa, in una logica da "cerchio magico" che tende a creare una ragnatela affidata solo a fedelissimi. Si è visto che chi non corrisponde alla fedeltà esce di scena, in una logica "usa e getta", ben nota a chi nella giungla politica prende le liane per volare come Tarzan e poi le molla lì.

Questa storia della politica dei leader è vecchia come il mondo, dai capi tribù in poi c'è una tendenza popolare alla ricerca di una Guida con la "g" maiuscola. La democrazia - pur con le sue molte imperfezioni - nasce, con i suoi delicati meccanismi fatti di pesi e contrappesi, proprio per evitare quella logica dell'"uomo solo al comando", che poi sfocia facilmente in logiche di arroganza e prepotenza, anticamera in certi casi di comportamenti autocratici e nei mostri del totalitarismo. La democrazia non può essere di certo, come spesso capitato in Italia, una palude in cui tra indecisioni e miasmi, tutto si fermi. Ma non può neanche essere accettabile un decisionismo che piano piano plasmi le istituzioni repubblicane a proprio uso e consumo attraverso atteggiamenti e modi che passano dal «faso tuto mi», impossibile in società così complesse, ad atteggiamenti che considerano validi - per esempio nelle discussioni di partito - solo i numeri e non la qualità delle proposte che si confrontano. Così Renzi impone e dispone, a Roma come in periferia, sproloquia e annuncia, con modalità che trasformano in realtà quanto è solo in fase progettuale. Un "bla bla" continuo ed insistente con occupazione dei media che neppure Silvio Berlusconi fece durante il suo periodo aureo. Par di capire che per ora il gioco regga e che - penso di non sbagliarmi - che un certo movimento in corso potrebbe portare, con una virata improvvisa, ad elezioni anticipate per evitare che il massiccio consenso venga ulteriormente rosicchiato, come sta avvenendo in queste settimane. Resta, in modo forte, l'inquietudine per la malattia italiana della drammatizzazione della politica e l'uso spregiudicato delle Istituzioni. Non è nuovo in questo senso il desiderio di piegarle ad una propria modellistica, incidendo persino sulle norme costituzionali, che è operazione delicata e che dovrebbe prevedere la massima condivisione e non diktat della serie "prendere o lasciare". La politica deve essere impregnata di pragmatismo e di scelta dei tempi precisa, perché nel decisionismo c'è sempre una parte buona per chi agisca in buona fede. Ma la politica dev'essere anche ricerca della soluzione migliore e faticosa ricerca di una mediazione. Altrimenti a furia di accumulare nemici e tensioni gli strappi possono diventare dolorosi e irreversibili ed il carisma può sciogliersi d’improvviso come neve al sole. Il "male italiano" dell'ingovernabilità ed il morbo dell'antipolitica ricadono in fondo sull'elettorato, che cerca sempre - ed in Valle d’Aosta lo sappiamo bene, piangendo sulle attuali macerie dell’autonomia - l'Uomo della Provvidenza. Definizione che Pio XI diede di Benito Mussolini e non gli portò, come noto, grande fortuna.