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10 mag 2023

Povera Rai

di Luciano Caveri

A conti fatti, scontando gli anni di aspettativa per mandato politico, ho lavorato alla Rai a tempo pieno per più di 12 anni (per il resto i contributi per la pensione da giornalista me li sono versati da solo). Periodo spezzato in due, uno prima del mandato a deputato e l’altro vent’anni dopo con un rientro in azienda sino alla scelta di andare in pensione, poco dopo l’inizio della Legislatura regionale attuale. Per cui ho avuto uno straordinario osservatorio delle differenza fra gli anni Ottanta e il secondo decennio di questo nuovo secolo. Naturalmente su entrambi i periodi ha pesato il mio mutare con il passare degli anni. Agli esordi ero un giovane giornalista con il fuoco sacro del mestiere, riconoscente di una chance unica in un lavoro che amavo profondamente. Mentre il rientro in servizio mi vedeva già attempato e meno tollerante rispetto ad uno scenario che mi pareva in evidente degrado. La Rai, già un tempo afflitta da logiche clientelari e con invadenza dei partiti, era risultata persino peggiorata. In troppi casi la “raccomandazione” ha mosso verso l’alto persone immeritevoli nella sola logica dell’”amico di…”. Una situazione avvilente e mortificant e risultava persino inutile dolersene più di tanto, essendo come svuotare il mare con un cucchiaino. Le notizie di queste ore con la giubilazione dell’AD Rai attraverso l’uso del decreto legge, perché si schiodasse, ha riaperto il libro della lottizzazione in modo ancora più plateale del passato. I giornali raccontano di come Tizio esca di scena perché considerato nemico e Sempronio appaia sulla scena come possibile vincitore di un posto di prestigio su spinta di… Capisco che la pratica non sia nuova. Posso dire, a beneficio del passato remoto, che certe carriere stellari di questi anni non hanno corrispondenza con un maggior garbo del tempo che fu, quando anche il raccomandato doveva avere quel minimo di curriculum per evitare al “segnalatore” di turno di fare brutta figura. Scherzando si diceva: hanno assunto quattro giornalisti, uno democristiano, uno comunista, uno socialista e uno bravo. Una specie di tacito “modus in rebus”, scivolato poi precipitosamente verso il basso in logiche, appunto, da Basso Impero. Lo dico con dispiacere. Ho lavorato con gioia nel servizio pubblico, convinto del suo ruolo capitale di emittente radiotv pubblica in grado con equilibrio di soddisfare le esigenze di chi paga il canone e domanda qualità e competenza. Oggi assisto con un disagio profondo a questo crescente mercato di do ut des con personaggi che spuntano nei possibili organigrammi, violando in profondità professionalità e competenze in una specie di calcio mercato in cui contano più la casacca che i contenuti. Nelle mia parentesi di sindacalista dei giornalisti avevo seguito con stupore certe assunzioni e certe carriere a detrimento di chi svolgeva il suo lavoro con competenza, ma con il solo torto di non avere un santo in paradiso. Ora che sono cambiati i santi le grandi manovre di spartizione appaiono così grossolane da lasciare stupefatti e mi pare che non ci siano grandi moti di indignazione. Ci si abitua davvero a tutto e alla fine la coltre di indifferenza copre le magagne, compresi onore e dignità. Viene in mente cosa scriveva Enrico Mentana, vecchio amico di gioventù, fuggito dalla Rai per tempo: “C'è di tutto: mantenute, raccomandati, epurati, miracolati. È come l'annuario del Censis: ci si possono leggere tutti i fenomeni sociali. Alcuni da baraccone”.