Auguri di cioccolato/a

Intanto, Buona Pasqua!
Non conosco l’identità di chi frequenta questo mio Blog Ma negli anni ho incontrato molte persone che lo leggono e questo mi fa piacere. Accomuno tutti in un pensiero affettuoso. Non so se sia la primavera in sé o chissà cos’altro, quel che certo è che questa festività, pur mobile sul calendario, è per tutti e comunque la si interpreti un momento per tirare il fiato rispetto agli affanni quotidiani. Per cui mi adeguo e userò lo spazio intanto
per la descrizione di queste mie prime ore.
Quando un’abitudine si installa nella vita diventa una tradizione. E così avviene anche oggi al risveglio con le uova. Nelle settimane precedenti si accumulano o per acquisto o per regalo un certo numero di uova di Pasqua, che - a differenza della mia infanzia, quando c’erano solo cioccolato al latte e quello amaro - diventano l’attrazione cui dedicarsi, fatta ormai di diverse varianti di gusti, frutto dell’’ingegno dei maîtres chocolatiers.
Ebbene, a casa nostra si mettono uova sul tavolo, pronte al sacrificio e spogliate del loro involucro (ormai usato per celare taglie piccole delle uova, risparmiando sul cioccolato), e poi si procede alla loro sopressione con scorpacciata. Ma di cosa? Cioccolato o cioccolata?
Così scrive Matilde Paoli dell’Accademia della Crusca: “Del problema dell'oscillazione con cui è reso in italiano il termine di origine amerindia (nahuatl chocolatl), giunto in Europa tramite lo spagnolo chocolate, si è occupato Bruno Migliorini in un saggio datato 1940 dal titolo Cioccolata o cioccolato? (Profili di parole, Firenze, Le Monnier 1968, pp. 46-56). A cioccolate, forma introdotta da Francesco Carletti nei primissimi anni del Seicento e confermata nel 1620 dal Vocabolario italiano e spagnolo di Lorenzo Franciosini, si affiancavano cioccolatte, cioccolata e cioccolato già prima della fine del secolo: nella terza edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1691) si registra la voce cioccolate con la glossa "Dicesi anche più volgarmente cioccolata" e alla voce ingrediente compare cioccolatte in una citazione da Esperienze intorno a diverse cose naturali di Francesco Redi.
Più avanti: “Solo nel corso del Novecento ci si avvia verso una semplificazione che, a livello dialettale, si risolve rapidamente nella riduzione a un unico termine: "Il Piemonte e il Veneto, l'Emilia e la Toscana, Roma, Napoli, la Sicilia hanno optato per il tipo cioccolata, o per una forma dissimilata plebea che non è mai giunta all'uso scritto, ciccolata. Invece la Lombardia ha preferito il tipo cioccolato; la Sardegna, infine, il tipo cioccolate" (Migliorini, Ibid. p. 54)”.
Questo dotto Migliorini concludeva il suo saggio con una previsione: "Si tenga presente la diffusione grandissima, in quasi tutta l'Italia, della forma cioccolata per la bevanda; e si veda d'altro lato con quale uniformità gl'industriali usino la forma cioccolato per il preparato in tavolette: negli avvisi pubblicitari si legge quasi costantemente cioccolato. L'uso delle due forme è storicamente giustificatissimo, e d'altra parte la differenza fra cioccolata in tazza e cioccolato in tavolette (o in polvere) è funzionalmente utile; la diffusione che essa ormai ha nel campo industriale ci fa credere che sia destinata a imporsi generalmente".
Insomma: la cioccolata sarebbe più bevanda, ma se parliamo in giro mi pare che la confusione resti.
L’autrice della Crusca cita questa realtà: “Tullio de Mauro, edizione 2007, cioccolata e cioccolato, entrambi termini di alto uso, sono sostanzialmente sinonimi, sia come sostantivi, col valore di 'alimento costituito da una miscela di cacao e zucchero, con eventuale aggiunta di aromi, essenze o altre sostanze che viene venduto in polvere o sotto forma di tavolette, cioccolatini', sia come aggettivi invariabili nell'accezione 'di colore bruno scuro'; ma la differenza rilevata sul piano del rapporto con altri elementi lessicali e cioè l'esclusività del sintagma cioccolata calda da un lato e di cioccolato fondente, al latte, bianco dall'altro".
Siete frastornati: direi che ci si può come consolazione dedicare all’uovo e sperare nella sorpresa, che ha il marchio sabaudo.
Torino fu la prima città d'Italia in cui arrivò il cioccolato nel '500 portato dalla spagnola duchessa Caterina, moglie del duca Emanuele Filiberto di Savoia, dopo la scoperta dell'America. Sempre a Torino ad inizio '900 venne brevettata la produzione seriale delle uova di Pasqua di cioccolato grazie ai pasticceri di Casa Sartorio che idearono uno stampo a cerniera chiuso che, messo in un'apposita macchina capace di ruotare velocemente, poteva distribuire il cioccolato uniformemente creando due mezze uova complementari che, una volta raffreddate, potevano essere decorate a piacere prima di essere assemblate creando il vero e proprio uovo di Pasqua. Questo consentiva anche di inserire nell'uovo una sorpresa, usanza che si diffuse molto velocemente fino al boom dal dopoguerra in poi.
La sorpresa mi riporta allo stupore dell'infanzia. La parola "sorpresa" (dal francese "surprendre, cogliere inaspettatamente" e quindi "meravigliare") sorprende! E' infatti una parola come un Giano bifronte, per cui si può fare una sorpresa e la si può ricevere e ormai mi pare che la usiamo più nelle accezioni positive che in quelle negative (la triste "brutta sorpresa").
Oggi dedichiamoci alla sorpresa…buona!

Cercare la speranza

“Rien ne va plus”. È questa l’espressione costituita dalla parte finale della formula usata dal croupier per regolare i tempi nel gioco della roulette. In quel momento non si può più fare nessuna puntata, perché la pallina ha cominciato a girare vorticosamente in attesa di depositarsi, segnando il destino fortunato o sfortunato del giocatore. Anche in italiano, in senso figurato, la si usa per significare che quel che è stato è stato, e ormai non c’è più nulla da fare.
Ci si può scherzare sul gioco d’azzardo e soprattutto ci si può sbizzarrire sulla natura umana che insegue il sogno della vincita e le emozioni che si ricavano nel tentare la fortuna.
Nella mitologia greca, Tiche o Tyche è la divinità tutelare della fortuna, della prosperità e del destino di una città o di uno Stato. Originariamente la Dea greca distribuiva gioia o dolore secondo il giusto, poi scandalizzata dall'ingiustizia dei mortali li abbandonò ritirandosi sull'Olimpo.
Tiche era considerata una delle Oceanine, figlie del titano Oceano e della titanide Teti. In altre versioni è la figlia di Ermes ed Afrodite. Nell'arte medievale la Dea è raffigurata con una cornucopia e con la ruota della fortuna.
La cornucòpia, letteralmente corno dell'abbondanza, dal latino cornu («corno») e copia («abbondanza»), è un simbolo mitologico di cibo e abbondanza. Mentre nella tradizione antica e medievale, la ruota della fortuna (in latino, Rota Fortunae) era un motivo iconografico e un simbolo della imprevedibilità delle vicende umane.
Questa storia del destino, in fondo è argomento, enorme e piccino nello stesso tempo. Le vicende umane segnano le epoche con avvenimenti di immensa portata che segnano nel bene e nel male intere generazioni e le loro vite. Lo stesso vale per i singoli e le loro famiglie scosse in positivo o in negativi da eventi che segnano esistenze. Non sempre trovare un filo logico è facile a fronte di imprevedibilità, cui spesso - ad esempio nella Storia - si cerca con facilità di dare un senso a fatti avvenuti.
Nascono le religioni per dare un senso, a seconda delle impostazioni, a questa nostra vita con sistemi più o meno sanzionatori per inquadrare le nostre vite e dare senso a certi saliscendi che colpiscono noi e le nostre comunità.
E il messaggio potente che io intravvedo nella Pasqua - e cioè per i cristiani la festa che celebra la resurrezione di Gesù- sta nel fare sempre ricordare, oltre al messaggio di fede, quello della speranza, che resta una potente spinta per uscire dai momenti difficili.
Ho trovato questo passaggio nell’omelia pasquale del del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia: “La speranza cristiana non è riducibile ad uno stato d’animo, ad una disposizione psicologica o emozionale, legata ad un particolare momento e al carattere di una persona che può essere ottimista, pessimista o pragmatica. Tantomeno è qualcosa di vacuo o illusorio; piuttosto è una forza che irrompe nella storia con un dinamismo che trasforma e tutto rinnova.
Jürgen Moltmann, teologo riformato, nella sua “Teologia della speranza” scrive: “Essa [la speranza] non prende le cose così come stanno. Ma come cose che avanzano, si muovono, si trasformano, nelle loro possibilità”.
La scrittrice Susanna Tamaro ha così detto: ”Cercare la speranza e farla crescere, coltivarla in noi stessi e in chi ci sta vicino, non arrendersi a ciò che adesso la società ci impone, alla sua volgarità, alla sua violenza, ma vedere tra queste cose dei segnali di cambiamento, custodirli e alimentarli come nell'antica Roma le Vestali custodivano il fuoco. Senza sonno né distrazione”.

La violenza delle canaglie

Berlusconi gravemente malato - e come tale oggetto di doveroso rispetto - è invece nel mirino degli odiatori del Web e questo, oltre a far riflettere sulla stupidità umana, fa venire il mal di stomaco, leggendo certe porcherie che emergono contro il Cavaliere. La politica è la politica ed è certo fatta anche di odio e amore, ma nulla può giustificare violenze scritte che arrivano addirittura ad augurare la morte a chi si considera come un avversario. I veleni non sono mai sopportabili e ormai è davvero inconcepibile che certe prese di posizione vomitevoli non siano fermate dai gestori dei Social, dove si concentra il peggio con mancate sospensioni dei peggiori.
L’odiatore è ormai un personaggio definito: chi usa la rete, e in particolare i social network, per esprimere odio o per incitare all’odio verso qualcuno o qualcosa.
Aggiunge la Crusca: “Dall’inglese hater, ‘odiatore’, a sua volta dal verbo to hate ‘odiare’, in uso in inglese sin dal sec. XIII. Già in Middle English esisteva il sostantivo hatere ‘chi odia’, mentre in Old English hetend significava ‘nemico’“.
Trovo un articolo interessante di Elena Cabras, fondatore Psicotypo e. direttore di Psicoterapia: “Sono diversi i motivi che spingono una persona a diffondere online la propria frustrazione. Prima di tutto, abbiamo una sensazione di impotenza che la persona prova nella vita reale. Molto spesso si tratta di soggetti che nel loro contesto familiare e sociale hanno un diritto di parola e di replica limitato. Si sentono, per questo, di non avere potere decisionale nella vita reale, mentre online si credono rivestiti da questo senso di onnipotenza in cui sono liberi di esprimere tutto ciò che provano senza che si applichino restrizioni di alcun tipo”.
C’è chi attacca e addirittura perseguita persone assai famose, come appunto Berlusconi, ma non solo: “Queste persone non fanno altro che attaccare soggetti “deboli”, che non devono essere necessariamente famosi, ma che semplicemente non rispondono, lasciando loro la libertà di dare sfogo ai disagi fino a quel momento repressi. Altri invece insultano per il puro divertimento di farlo; non hanno motivazioni intrinseche, lo considerano un passatempo; insultano e denigrano per ammazzare la monotonia e realizzare una “guerra tra poveri” in cui ognuno insorge per dire la sua”.
L’esperta aggiunge: “Abbiamo, poi, gli egocentrici: usano mezzi e modalità spietati per farsi notare dagli altri, credono che andare controcorrente generi notorietà, nel bene o nel male. È sufficiente un semplice commento negativo per far sì che attraverso risposte, o like, si emerga tra tutti gli altri“.
E ancora: “Gli hater seguono un principio fondamentale: più se ne parla, meglio è. È proprio per questo che le tematiche oggetto di odio variano; spesso sono i personaggi più famosi sul web, i politici, gli omosessuali, ed i soggetti considerati “prede” ad essere bullizzati e denigrati dagli haters. Distruggerli ed annientarli psicologicamente aumenta il loro ego e la voglia di insultarli cresce sempre di più, sentendosi appagati e soddisfatti una volta aver premuto il tasto “invio” del loro smartphone.
Più è violento l’attacco, maggiore sarà la soddisfazione personale provata. Per gli haters, essere presi in considerazione ed essere sicuri di aver scatenato la rabbia altrui è il massimo della gratificazione, poiché hanno vinto; hanno raggiunto il loro obiettivo egregiamente: aver fatto arrabbiare un altro individuo ed aver scatenato la sua reazione. Ogni hater, poi, avrà il suo periodo di attacco: possiamo avere odiatori che insultano con cadenza quotidiana un soggetto che hanno preso di mira, mentre altri agiscono in maniera casuale, insultano chi vogliono quando lo vogliono, senza una continuità periodica particolare. L’importante è che la rabbia e la frustrazione siano sfogati sul web, e che il loro senso di odio verso il mondo sia appagato facendo del male ad altri”.
Torno a odio e scorro i sinonimi, che poi in realtà non sono affatto sovrapponibili: esecrazione, avversione, fobia, inimicizia, risentimento, rancore, ripugnanza, astio, livore, ribrezzo, ostilità, ruggine, disprezzo, antipatia, animosità, malanimo, accanimento, intolleranza, contrarietà. Insomma: ci sono sfumature assai diverse, ma quel che colpisce in queste circostanze - lo ripeto - è la violenza, scelta estrema delle canaglie.

Verità e sincerità

Mi è capitato poche volte di testimoniare in un processo e di leggere la formula di rito: ”Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”.
La verità! Userei per definirne i contorni difficili questa citazione: “L'uomo appassionato di verità, o, se non altro, di esattezza, il più delle volte è in grado di accorgersi, come Pilato, che la verità non è pura”.
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano”.
Il caso vuole che Repubblica si sia occupata in questi giorni di Ponzio Pilato nella serie “Sulle tracce della Via Crucis” scritta da Stefano Massini: “Egli ci viene descritto come un funzionario niente affatto illuminato, anzi piuttosto incline all'angheria e al sopruso, noto per aver sedato con mattanze di sangue ogni minimo vagito di protesta. Ma ciò che più vale è che il signor governatore non perdeva occasione per mostrarsi un gradasso, tipicamente affetto da abuso di potere: aveva umiliato i locali esponendo nel perimetro della Città Santa i vessilli divini di Tiberio, e quando (dall'imperatore stesso) era stato obbligato a rimuoverli, aveva insistito con ulteriori gesti di disprezzo, per cui in più occasioni era stato richiamato all'ordine dai suoi superiori. È sufficiente a delineare il personaggio, o occorre aggiungere che non mancano accuse di venalità e corruzione?”.
E ancora: “La storiografia ci consegna l'immagine di un politicante dozzinale, di bassissima lega, un lillipuziano che d'un tratto si scopre davanti a qualcosa di molto più grande di lui: quel giovane profeta che era entrato a Gerusalemme accolto da tripudi di folla, adesso gli veniva consegnato dai Sacerdoti che lo volevano morto, e può perfino darsi che Pilato avesse percepito un'energia insolita negli occhi di quel figlio di falegname, ma resta agli atti che per paura o per menefreghismo egli subodorò che la faccenda stavolta era seria, che c'era da compromettersi, e non si volle sporcare le mani”.
Ricordo, incidentalmente, che il rudere del castello di Nus in Valle d’Aosta, chiamato ”di Pilato”, deriva da una leggenda, perché storicamente infondata essendo la costruzione di epoca medioevale, secondo la quale il procuratore romano Ponzio Pilato vi avrebbe soggiornato mentre si recava a Vienne in Gallia, dove sarebbe stato esiliato da Caligola e dove sarebbe morto suicida.
Il ponziopilatismo è, comunque sia, pessimo ed è un modo per far decidere ad altri, quel orribile ”furor di popolo”, che tanto piace ai populisti, che amano aizzare le piazze, perlopiù in alternativa ai meccanismi della democrazia rappresentativa.
Dovessi dire a me piace molto il termine “sincerità”, che fa parte del mio carattere e la considero una medaglia, mentre chi non mi ama ritiene questa caratteristica un grave difetto.
Ricorda Miriam Di Carlo sul sito dell’Accademia della Crusca, attorno al termine “sincero”: “Obsequium amicos, veritas odium parit” e cioè ”l’adulazione procura amici, la sincerità i nemici”: è un verso tratto dall’Andria di Terenzio (v. 68), ripreso poi da Cicerone nel De amicitia”.
Esiste su ”sincero” un’etimologia falsa: “Anche la parola sincero ha un’origine illuminante nella sua etimologia, sine ceris = senza cera. Nell’antichità, quando una statua aveva dei difetti, si poteva aggiustare con la cera, che andava a mascherare e a levigare il marmo corrotto. Invece quando era perfetta, e non aveva bisogno di correzioni, veniva definita sincera, senza cera. (Alessio Atzeni, Arte del risveglio)”.
Proprio l’esperta della Crusca così aggiusta il tiro: “In realtà, come indicano i principali dizionari, l’aggettivo latino sincerus ha tutt’altra etimologia: deriva dalla radice *sem-/*sim- ‘uno solo, unico’ (da cui anche l’avverbio latino semel ‘una sola volta’ e l’aggettivo simplex ‘semplice’) e da -cērus, corradicale del verbo crēscere ‘diventar grande, aumentare’ e significa dunque ‘di una sola/unica origine; tutto d’un pezzo“.
E ancora più avanti: “L’etimologia rispecchia il primo significato della parola in latino: la sincerità è una virtù che in primis riguarda l’integrità dell’uomo a prescindere dall’aspetto “sociale” e relazionale. Per estensione poi, chi è sincero, ossia puro e incorrotto nel cuore, è automaticamente leale e franco nella relazione con l’altro“.
Che bello sentirsi sincero, anche se talvolta - ecco l’autocritica - può capitarmi di essere un pochino…ruvido.

Noi e gli animali

Mi ha sempre molto divertito la catalogazione fra ”gufi” e “allodole”, termini entrati in uso per definire individui con spiccata preferenza per comportamenti serotini o mattinieri e dunque - si dirà così? - con un differente ritmo circadiano.
Si sa che i gufi tendono a dormire molto tardi e, se possono, a prolungare il sonno fino a tardi il mattino seguente. Le allodole invece si alzano presto al mattino e dormono presto alla sera.
Io sono abbastanza allodola e confesso che mi ha sempre divertito l’esercizio di noi umani di trovare assonanze fra le nostre singole caratteristiche e i diversi animali che popolano la terra. Un tempo, per altro, il confronto aveva una scala più locale, mentre oggi si espande ad una dimensione globale.
Per dire: un pigrone in Valle d’Aosta sarebbe stato equiparato ad una marmotta (tra letargo e vita quieta fra tana e praterie), mentre oggi potrebbe spuntare l’esempio del bradipo, che - attenzione alla topica! - non è neanche lontano parente delle scimmie, appartenendo invece all'ordine degli xenartri (o sdentati) come il formichiere e l'armadillo.
Ma torniamo al parallelo fra uomo e animale. Certo le scimmie - anche noi apparteniamo all’ordine dei Primati - sono il rapporto più semplice, ma a ben vedere nella nostra vita ci si può sbizzarrire.
Ad esempio ci sono padroni che o per analogia o per alchimia assomigliano ai propri cani, come gemelli separati alla nascita. Forse che non abbiamo conoscenti che assomigliano - anche se è poco urbano osservarlo - a maiali o caproni?
Avevo un’amica che somigliava ad una giraffa, un’altra ad un sensuale gatta e una terza dal riconoscibile aspetto equino. Io, da molto tempo, aspiro al rango di papero.
Leggo un interessante articolo sul sito dell’Università di Trento della ricercatrice Virginia Pallante, che scrive: ”Se, come sostenuto da Charles Darwin, ciò che diversifica fra loro le specie animali, uomo incluso, è una differenza di grado e non di genere, è ragionevole aspettarci di incontrare tratti che immaginavamo essere esclusivamente umani anche negli altri animali. Da questo punto di vista, l’etologia ha avuto il merito di sfumare sempre più i rigidi confini entro i quali abbiamo a lungo pensato l’identità umana, suggerendo, attraverso l’analisi di comportamenti condivisi, la presenza di un substrato comune tra l’uomo e gli altri animali”.
Insomma: tutti i popoli guardano con curiosità agli animali che li circondano e con cui hanno diviso i propri territori, sia che siano stati addomesticati (da noi la mucca è pure reina), sia che siano selvatici (lo stambecco è il nostro must).
Ha scritto Giorgio Celli, etologo che fu con me al Parlamento europeo: ”Se il Paradiso esiste è giusto che sia popolato di animali. Ve lo immaginate un Eden senza il canto degli uccelli, il garrire delle rondini, il belare delle caprette e l’apparire del buffo e curioso musetto di un coniglio? Di sicuro nel mio Paradiso ideale non possono non echeggiare miagolii da ogni angolo. Il festoso abbaiare di cani che giocano finalmente sereni. Vogliamo negare anche questo ai poveri animali?”.
Certo che animali siamo anche noi e lo spiegava bene l’altro famoso etologo, al
Konrad Lorenz: “Sarà molto difficile per l'orgoglio umano riconoscere che l'«homo sapiens» non ha semplicemente qualche interesse per gli animali: lui è un animale!”.
Dunque è giusto prendersi cura di noi stessi e avere un rapporto corretto con gli altri animali, senza i terribili pistolotti e i musi lunghi degli animalisti, alcuni dei quali se dovessero, in cima ad una torre, scegliere se far cadere dall’alto un essere umano o un criceto sceglierebbero di salvare quest’ultimo con evidente abbaglio.

Le valanghe non sanno che sei esperto

Domenica scorsa, prima che purtroppo venissero rinvenuti i corpi senza vita di due scialpinisti torinesi investiti il giorno prima da una valanga in Valtournenche, leggevo la rassegna stampa mattutina che confermava il numero di tragedie analoghe su tutte le Alpi.
Così di getto su Twitter ho scritto in modo che ritengo educato: “È sconcertante che ci siano scialpinisti che disattendono i bollettini che indicano pericolo, esponendo i soccorritori a rischi per salvataggi assai costosi per la comunità, spesso purtroppo solo per recuperare le salme di chi è stato vittima della propria imprudenza”.
Quindi non c’è stata - come ben capito dai miei followers - alcuna indelicatezza rispetto al lutto delle famiglie dei due torinesi scomparsi tragicamente. Era un’osservazione generale, che prescindeva dalla scelta dei singoli che hanno nel caso di cronaca specifico sfidato l’oggettività dei pericoli causati dalle condizioni della neve, che erano ben esplicitati nel bollettino valanghe.
Questi comportamenti si ripetono ormai con triste regolarità che siano praticanti dello scialpinismo o l’insieme di discipline riunite con il termine freeride e cioè le attività fuoripista in neve fresca.
Mi sono occupato del Soccorso Alpino molte volte nel mio lavoro politico, ma anche prima. Ero difatti un giovane giornalista quando all’inizio degli anni Ottanta salivo al rifugio Monzino, dove il grande innovatore delle tecniche di soccorso, la guida Franco Garda, istruiva i suoi colleghi più giovani e i medici rianimatori alle diverse pratiche possibili e in primis a quanto ruotava attorno all’affermarsi dell’elisoccorso. Per cui fu naturale seguire questo filone con apposite norme legislative di supporto a Roma e ad Aosta, ma anche seguendo queste questioni a Bruxelles.
Per questo gioco di squadra la Valle d’Aosta è sempre stata al vertice nelle attività di soccorso in montagna con equipaggi, cominciando da piloti di grande maestria, che hanno creato un sistema di salvataggio di grande efficacia. Sono stato testimone di interventi in quota eseguiti con grande perizia e di importanti esercitazioni per essere pronti ad ogni evenienza.
Chi interviene in alta montagna lo fa sempre con una notevole componente di rischio e ho visto situazioni in cui solo il coraggio e la determinazione dei soccorritori hanno fatto la differenza. Questo significa per la Valle investimenti notevoli in uomini e mezzi, senza mai lesinare in formazione e in attrezzature.
Quel che è certo è che proprio questa nostra professionalità è elemento rassicurante per chi abita e frequenta la nostra Regione. Ma non si può pensare che questo possa significare un approccio sbagliato o facilone al mondo della montagna. Troppi, anche molto capaci, sono morti non avendo calcolato la componente di pericolo in determinate circostanze, anche quando in modo evidentissimo sarebbe stato meglio non affrontare la montagna.
Sull’ultimo incidente ha detto a Enrico Martinet de La Stampa il grande alpinista Hervé Barmasse: “Mi preme dire che le analisi si fanno sempre dopo sciagure. È giusto, s'impara e si ha uno sguardo differente, ma resta il dolore, l'immenso dispiacere. Per tornare a sabato il bollettino valanghe indicava 4 su una scala di 5 gradi. Con 5 si chiudono le strade, per capirci, con 4 il pericolo è evidente ed è consigliabile scegliere itinerari dove ci sono le guide del posto, oppure sciare al bordo delle piste battute”.
Ma l’altro punto è chiaro e riguarda un tema importante e cioè la capacità di fare quando necessario un passo indietro: ”Rinunciare fa la differenza tra la vita e la morte. I consigli di sempre, bollettini, chiedere ai professionisti del posto, ma soprattutto pensare che tutto dipende da te e se sbagli muori. Ti giochi tutto”.
Un grande esperto di valanghe e grande alpinista, André Roch, disse: “Anche gli esperti muoiono sotto le valanghe, perché le valanghe non sanno che sei esperto”.

Rapporti istituzionali e polemiche politiche

Non capisco dove voglia andare il Governo Meloni e lo dico con serenità, sapendo che chi fa politica in Valle d’Aosta deve coltivare rapporti corretti con chiunque governi a Roma. E il fatto che gli autonomisti governino in Valle d’Aosta con la Sinistra (ma quella estrema è all’opposizione) non dovrebbe essere un ostacolo insormontabile, perché le istituzioni dovrebbero sempre dialogare con le istituzioni. Uso il condizionale perché mi pare evidente che non sempre sia così e ci sia chi, invece, voglia sempre e solo “politicizzare" questi rapporti con ragionamenti tipo: se non governo in Valle, allora non avrai alcuna porta aperta nei rapporti con i “nostri” nella Capitale. Chi ragiona così fa male alla propria comunità e non ai propri avversari politici.
Ma dicevo di questo Governo, che mi pare stia vivendo la fine di quella “luna di miele”, cioè quel periodo di accondiscendenza - così definito con l’anglicismo dal lessico americano “honeymoon” - dell’opinione pubblica verso chi inizia a governare, prescindendo dal colore politico di appartenenza.
Ormai nelle democrazie occidentali, comunque sia, chi governa rischia sempre grosso per una volatilità dei voti tra chi cambia bandiera come le mutande e chi a votare non ci va più, rinunciando ad un suo diritto.
Certo Meloni e i suoi compagni o meglio camerati d’avventura ci mette del suo con vere e proprie gaffes e inefficienze, come si vede nella gestione confusa del problema dell’immigrazione, che era un loro cavallo di battaglia, o sulla questione del PNRR con scelte al momento non ben definite, mentre passa il tempo.
Ma Beppe Severgnini sul Corriere dice meglio di me di questa voglia di interventismo, che poi sfocia in boomerang che tornano violentemente indietro: “l divieto alle carni coltivate, il blocco di ChatGpt, l’abbondono dello Spid, il tentativo di ridimensionare l’orrore di via Rasella: tutto in un giorno, o quasi. Appena prima, la decisione di bloccare la trascrizione dei certificati di nascita dei figli di coppie dello stesso sesso. Tira un’arietta strana, sull’Italia, questa primavera. È come se il futuro facesse paura, e la nuova dirigenza volesse rassicurarci lucidando il passato”.
Governare guardando nel retrovisore con logica passatista, proibizionista e pure luddista non sembra in effetti una grande pensata, semplificando problemi complessi con decisioni non sempre ragionate sino in fondo. Ciò avviene in un misto nostalgico e antimodernista, che poco dovrebbe avere a che fare con una politica conservatrice che non sia retriva o ingenua, a seconda dei casi.
Severgnini aggiunge: “È ora di chiederselo, perché quattro, dieci, venti indizi fanno una prova: cosa vogliono conservare i conservatori?
Prendiamo la carni coltivate, perché di questo si tratta. Siamo in fase sperimentale, ma chiamarla «carne sintetica» dimostra un pregiudizio. Si tratta di coltivazione in vitro di cellule animali, uno sviluppo che potrebbe rivoluzionare la produzione di cibi proteici, riducendo gli allevamenti intensivi e le conseguenze sull’ambiente. Vivo nella bassa padana: capisco il possibile impatto sulla filiera agricola. Ma credo che la novità vada studiata, non demonizzata”.
Aggiungo che si vieta in Italia, ma si può importare dal resto del mondo e dunque si tratta di una diga piena di buchi.
“E - prosegue il giornalista - l’antipatia per lo Spid? Prima di liquidare un sistema di identificazione usato da 33 milioni (!) di italiani, ci andrei cauto. Il governo punta sulla carta di identità elettronica, che non è pronta. Alessio Butti, sottosegretario per l’innovazione, sostiene che lo Stato «dev’essere l’unico a disporre ed erogare certificati di identità anche digitali, mentre Spid usa identity provider privati». Vero: ma Poste, Aruba etc sono stati coinvolti perché lo Stato non aveva i mezzi per fare da sé”.
Conclusione secca: “Non ci sono solo le cose dette, ma anche quelle taciute. Cosa intendiamo fare in vista del tracollo demografico? Davanti a un futuro annunciato, il governo tace. Se anche gli italiani si mettessero d’improvviso a fare figli - improbabile, viste le condizioni in cui sono messe le nuove famiglie - le conseguenze sul mondo del lavoro le vedremo fra vent’anni. E nel frattempo? I buchi di organico (nella sanità, nell’assistenza, nell’industria, nei servizi) diventeranno voragini: e di un piano organico di immigrazione non c’è traccia. Rincorriamo le emergenze, come sempre.
Cinque mesi di governo sono pochi per trarre conclusioni, ma la domanda resta: cosa vogliono conservare i conservatori?”.
Resta il fatto preclaro e bisogna essere onesti nel dire che stare all’opposizione è più facile. Giochi sempre di rimessa: il Governo fa e tu dici che non va bene. Chi dirige sceglie una strada e l’opposizione strilla. Operi una scelta impopolare ma necessaria (come Macron sulle pensioni) e la minoranza infiamma le piazze, senza mai dire in questo caso come quasi sempre quali sarebbero state le reali alternative. Una democrazia che diventa una perenne trincea con guerre guerreggiate infinite o peggio ancora con perenni lotte intestine non fa bene.

Il peso del disinteresse

Penso che si debba essere curiosi di ogni fenomeno che cambi in qualche modo la nostra società nel suo insieme e trasformi pure l’esistenza dei singoli. Soprattutto nel quadro di quella creatura proteiforme che è la famiglia, oggetto di ogni forma possibile di retorica, che sia in buona o cattiva fede.
Il pensiero, semplificato all’osso, è il seguente: cresce il numero di quelli che si disinteressano, entrando in una dimensione prevalentemente familiare e scissa in larga misura da impegni pubblici o comunitari. È una scelta di vita che rischia di dimostrarsi irreversibile. Come se si staccasse una spina, orientandosi verso un una sfera più intima, che può creare una sorta di isolamento e di distacco dagli altri.
Non parlo solo della dimensione politica, che sarebbe cosa abbastanza nota anche per colpa di chi in politica non riesce più a comunicare e soprattutto a scaldare i cuori e il distacco, facendo i conti con un fossato che si allarga pericolosamente nel tempo.
Parlo, semmai, delle piccole e grandi cose, sapendo che al posta di chi decide di non esserci sono altri che lo fanno. Questo non avviene con una delega, ma per rinuncia di chi ne avrebbe diritto e dunque sopravviene una forzata sostituzione.
Un abbandono che non si manifesta nel passato remoto dei calessi o delle piume d’oca, ma in un mondo che ci inonda con ogni mezzo possibile di informazioni, che coprono ogni spazio e offrono mille occasioni per capire. Eppure sono molti che decidono di chiudersi nel loro nido più o meno confortevole non per una disconnessione, ma per una sorta di catalessi intimista.
Mi capita spesso di intavolare discussioni su temi che mi paiono di attualità o di una qualche importanza e vedo in alcuni guardi degli interlocutori spersi con la bocche cucite o balbettanti. Per una semplice ragione: la persona o le persone con cui interloquisci hanno scelto di vivere in una loro bolla e non sanno molto delle cose che li dovrebbero interessare. È come se avessero alzato una barriera chiusi nei loro fortini.
Sarà una reazione di difesa, un grido di protesta, un “primum vivere, deinde philosophari”. In sostanza «prima si pensi a vivere, poi a fare della filosofia»: un richiamo a una maggiore concretezza e a una maggiore aderenza agli aspetti pratici della vita. Se non fosse che, alla fine, la distinzione non è oggettivamente così facile.
Invece, io penso che la partecipazione, intesa nelle sue varie declinazioni, resti un obbligo, che risulta modulabile pur sempre a diversi livelli. Non si tratta di impartire lezioni di vita a nessuno, ma poi - questo penso sia il punto - è bene pertanto non lamentarsi delle conseguenze, perché i vuoti si riempiono in qualche modo e “malgré nous”.
Per cui guardare avanti vuol dire, comunque, agire oggi (in latino si potrebbe usare ”hic et nunc”), affinché quanto vorremmo si realizzi non solo nell’enclave delle pareti domestiche.
Capisco come ciascuno di noi sia già oberato di pensieri, preoccupazioni e pure, per fortuna, di speranze e dunque si rinunci da parte di alcuni ad occupare dimensioni collettive più vaste.
Tuttavia altri si interesseranno a cose importanti e riempiranno gli spazi con evidente riverbero sulle vite dei rinunciatari, che non potranno certo lamentarsene.

L’Aosta Valley Loop Beach

Tutto nasce dall’evidente ingiustizia dell’assenza in Valle d’Aosta del mare, verificabile - ahimè! - ogni giorno da parte di noi valdostani ed anche dai turisti in visita, delusi dalla mancanza di porti e spiagge. Si tratta non solo di una considerazione ad uso ludico, ma anche dalle conseguenze gravi, dal punto di vista geopolitico, dovute all’assenza strategica di uno sbocco al mare. Anche se, dal punto di vista della Marina mercantile, il recente accordo con la flotta svizzera (che di recente ha compiuto i suoi 80 anni di vita) ci ha consentito finalmente il varo della prima nave valdostana, Le Valdôtain volant, utile in particolare per il trasporto delle fontine e del vino negli Stati Uniti, ma anche a disposizione per crociere marine per anziani e bambini.
Rispetto al mare, ad essere precisi e a giustificazione di una certa nostalgia rinvenibile nel repertorio delle canzoni tradizionali, più di 200 milioni di anni fa un Oceano c’era, ma poi lo disdicevole scontro fra Continenti (per alcuni già colpa delle NATO) ce lo ha portato via. Dunque dobbiamo vivere di ricordi, come fanno quelli della setta degli adoratori delle Cime Bianche, cimelio dell’antica e scomparsa epoca marina con il giusto rimpianto che la Valle d’Aosta non abbia mai potuto diventare una Repubblica marinara e godere in automatico di una Zona Franca portuale.
Ma al vulnus storico-geologico oggi si può finalmente porre rimedio, sfruttando anche la favorevole forza di gravità e l’evidenza, in barba ai terrapiattisti, che noi siamo su e il mare - quello più vicino è il mar Ligure - è giù.
La proposta viene da una società di costruzioni “La clicca dzeusta” in collaborazione con il geniale e bizzarro Elon Musk, che ha depositato presso la Regione Valle d’Aosta, da finanziare con i fondi del PNRR, un’avvenieristica soluzione tecnica definita Aosta Valley Loop Beach.
Il dato di partenza deriva dalla constatazione che il mare non è distante. Infatti fra Aosta e la ridente località di Mentone, in Costa Azzurra, aqla distanza è di soli 219 KM in linea d’aria.
Grazie a Musk, che ha brevettato una sorta di scivolo con scafandri che somigliano a tute spaziali, in circa 16 minuti sarà possibile trovarsi al mare. La velocità media sarà attorno agli 800 km/h e un ingegnoso sistema di materassi ad aria, a conclusione del percorso, consentirà al passeggero di uscire incolume dall’avventura, che comprende anche sdraio, ombrellone e aperitivo sulla spiaggia delle Sablettes.
Un pochino più complicato il ritorno previsto in pullman con un percorso di circa cinque ore con sosta all’autogrill di Carcare.
Si calcola che l’apertura dell’ingegnoso sistema, anche a disposizione dei turisti desiderosi di privare la geniale accoppiata montagna-mare, è prevista per il 1 Aprile 2026.

La corsa ad ostacoli del PNRR

Capita di dover fare i conti con gli esiti del proprio lavoro quotidiano e ho imparato come in certi passaggi scriverne risulta utile per fissare punti e valutare meglio le situazioni. È un modo, in fondo, per mettere ordine ai propri pensieri per non piegarsi troppo al contingente e ai propri umori. Non sempre le cose funzionano e bisogna mettersi di buzzo buono per risolvere le questioni e per farlo indulgere al pessimismo peggiora semmai la situazione. Scusate le banalità, non sempre così ovvie, purtroppo. Sopporto ormai a malapena i lamentosi o chi scarica ad altri i barili con grande naturalezza.
Sin dagli esordi del PNRR - disegno strategico di fonte europea per uscire da situazioni economiche di impasse ben note - si era capito come i meccanismi prescelti avrebbero messo a rischio l’insieme del progetto, la cui complessità è evidente già nella varietà tentacolare degli interventi concreti, così come sono stati previsti.
La scelta italiana di centralizzare, complicare, burocratizzare è di fatto il peccato originale, che ha reso tutto più difficile già in partenza. La mancata acquisizione di notizie certe ha pesato molto e talvolta alcune indicazioni chiave sono cambiate in corso d’opera. Aggiungo come certi sistemi informatici complessi abbiano reso la vita difficile a chi li doveva adoperare per il caricamento dei dati. Esiste poi una rete di controlli, ovviamente necessari e legittimi, che tuttavia si stanno allargando in modo asfissiante e a tratti minaccioso e questo spinge molti a lasciare prima ancora di impegnarsi per varie paure che si sommano. Confusione genera confusione e alcune campagne di stampa, improntate a catastrofismo cosmico, generano effetti nefasti sul sistema e deprimono chi opera sul campo.
Vero è che la continua produzione legislativa si è succeduta per dare ordine al caos, ma l’esito è stato per ora il contrario. Ricordo alcuni primi incontri a Roma, in cui educatamente si cercava di far capire a certi grand commis dello Stato dell’esistenza di precise e circostanziate storture di base che avrebbero creato problemi seri. Invece non solo certi allarmi non sono stati presi sul serio e anzi si è continuato sulla medesima strada. Eppure si sa come perseverare sia alla fine diabolico, specie in presenza di un’Unione europea che vigila su tempi e contenuti e chiederà conto di ritardi e omissioni. Avrà scarso successo lo tendenza già in voga di scaricare tutto sui predecessori, perché molte responsabilità sono da assumere ora e in fretta. Vi è ancora un punto: bisogna evitare che il PNRR venga considerato una cornucopia che contenga tutto e che risolva tutti i mali come se fosse una bacchetta magica, assumendo un ruolo sproporzionato e salvifico.
Che fare, almeno nel nostro piccolo con circa 400 progetti e alla fine mezzo miliardo di euro? Intanto avere piena contezza delle forze in campo e questo ormai si sa. Dopodiché si lavora per investire in modo fruttuoso quanto a disposizione, mettendoci impegno e metodo, nel limite del possibile.
Su questo, come si dice, ci stiamo lavorando per evitare problemi con la creazione di organismi a diversi livelli che monitorino l’andamento dei lavori in corso con aiuti interni ed esterni all’amministrazione. Ma ci sono quotidianamente ostacoli da affrontare, specie per il tema delicato e pure inquietante del reperimento delle risorse umane che devono far funzionare la macchina in un periodo in cui i concorsi pubblici vedono una bassa partecipazione. In più quando le strade non sono chiare bisogna fare in modo che siano definiti tempi e contenuti per evitare lo spauracchio di problemi su alcuni assi di intervento. Ma bisogna affrontare la realtà e essere fiduciosi, senza che si scarichino sulle Regioni le responsabilità che non sono le loro.

Condividi contenuti

Registrazione Tribunale di Aosta n.2/2018 | Direttore responsabile Mara Ghidinelli | © 2008-2021 Luciano Caveri