La Francia grazia i terroristi

Gli anni di piombo (dall'omonimo film del 1981 diretto da Margarethe von Trotta, che trattava l'esperienza della Rote Armee Fraktion
gruppo terroristico tedesco) hanno coinciso con il mio passaggio dalla giovinezza all’età adulta. Lo stragismo di estrema destra e il terrorismo rosso insanguinarono l’Italia fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta con un bilancio terribile di morti e feriti.
Avevo appena cominciato a fare il giornalista, prima in erba con - come culmine - la morte di Moro nel 1978 che commentai a Radio Saint-Vincent e poi, già contrattualizzato, pochi mesi dopo, con la cronaca degli attentati quasi quotidiani attraverso notiziari a Radio Reporter 93 di Torino.
Ero giovane e, per quanto la pesantezza si vivesse con certe tragedie umane, il mondo restava pieno di speranze e anche della joie de vivre. Ma ora, quando ci ripenso, tornano vividi i ricordi di quella stagione assurda, violenta e a tratti feroce. Considero le follie di allora come un insieme, un grumo di dolore e assieme di insegnamenti su dove gli ideologismi possano portare, obnubilando le menti.
Ho letto Carlo Bonini su Repubblica: “La decisione della Corte di Cassazione francese di confermare il diniego all'estradizione di otto uomini e due donne, protagonisti della stagione della lotta armata nel nostro Paese, e per questo condannati in via definitiva per gravissimi reati di matrice terroristica (omicidi nella maggior parte dei casi, come anche sequestri di persona) riapre, rendendola a questo punto non più rimarginabile, una ferita profonda. Che tale resterà nella storia dei rapporti tra Italia e Francia. Per l'intollerabile pregiudizio di cui questa decisione è figlia, per l'enormità giuridica del principio che afferma, per l'impunità che assicura ai colpevoli e il dolore in cui torna a precipitare la vita e la memoria delle vittime. Per l'ostacolo definitivo che pone nel chiudere per sempre la coda insanguinata del nostro Novecento”.
L’applicazione della “dottrina Mitterand”, cavalcata da certa “gauche caviar”, ha nel tempo accecato certi maitres à penser d’Oltralpe, dando ad assassini la patente di vittime della Giustizia con status da perseguitati politici e i giudici francesi hanno seguito il solco.
Ricorda Bonini: « Nella primavera del 2021, il Presidente francese Macron e il suo ministro di giustizia Eric Dupond-Moretti insieme al nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella erano riusciti a chiudere quella pagina del Novecento ripristinando il principio universale di ogni democrazia per cui i reati, accertati in via definitiva in un giusto processo, non debbano e non possano restare impuniti. Ecco perché, nel giugno di quell'anno, nelle case parigine di uomini e donne ormai anziani aveva bussato il fantasma della lotta armata, presentando un conto troppo a lungo rinviato e non certo perché figlio di un ritardo nell'accertamento della verità, ma solo della volontà dei colpevoli di sottrarsi alla pena nel luogo in cui questo gli era stato per lustri consentito”.
Già, gli interessati sono stati condannati dalla Giustizia italiana con processi regolari, che avevano sancito le loro colpe e la gravità dlele loro azioni. ”Ebbene, la giustizia francese - osserva Bonini - spiega oggi al nostro Paese che a impedire il rientro in Italia di quei dieci ex militanti della lotta armata, responsabili della morte data ad innocenti senza alcun processo (che non fosse quello agghiacciante pronunciato dal "tribunale" di un fantomatico "popolo"), sarebbe il mancato rispetto degli articoli 6 e 8 della carta europea dei diritti fondamentali dell'uomo. Lì dove cioè si sancisce il diritto di ogni cittadino europeo ad avere un giusto processo e a veder rispettata la propria vita privata e familiare. Nell'affermazione sono evidenti due enormità. Ritenere, senza alcuna evidenza, che l'Italia abbia celebrato nei confronti di quei dieci ex terroristi processi contrari allo Stato di diritto. Ritenere che la richiesta di estradizione leda la raggiunta quiete della sfera privata e familiare di ex assassini perché non ricorrerebbero i requisiti per cui quella libertà può essere compressa. Come se l'impunità di condannati in via definitiva cercata, ottenuta, e difesa con strumenti politici, possa essere oggi un canone europeo di giustizia cui adeguare le decisioni del giudice penale”.
 Conclude il giornalista e concordo in pieno con vivo dispiacere per un evidente errore dei magistrati francesi: ”La verità - ed è terribile dirlo - è che nella decisione della giustizia francese ci sono tutto il pregiudizio, le tossine e il ciarpame ideologico che una generazione di expat è riuscita a depositare in trent'anni nella cultura profonda di quel Paese. Convincendola che la battaglia contro il terrorismo fu vinta non grazie alla tenuta democratica italiana, della sua società, delle sue istituzioni e dei loro servitori, dei suoi partiti e sindacati, dei suoi studenti e operai che rifiutarono la lusinga della "violenza rivoluzionaria", ma a colpi di un diritto penale addomesticato dall'emergenza. Uno sfregio alla Storia e a chi per difendere la democrazia diede la vita”.

Infangare l’Autonomia speciale

Ho passato una parte della mia carriera politica a rispondere agli attacchi e ai pregiudizi nei confronti dell’Autonomia speciale. L’ho sempre fatto, in diverse situazioni, in una logica di difesa e anche di attacco.
Difesa verso chi la metteva in discussione e ne limitava il ruolo. Attacco per allargare, ove possibile, poteri e competenze.
Ho portato a casa importanti modifiche dello Statuto di autonomia e norme nella legislazione ordinaria utili per la mia comunità in un’interlocuzione nel segno della dignità istituzionale e mai con il cappello in mano.
Per questo mi sono abituato anche agli attacchi come quelli di pochi giorni fa sul Corriere con un paginone firmato da Milena Gabanelli, che prosegue sul Corriere quel giornalismo sperimentato per anni in tv con Report. Un giornalismo che non mi è mai piaciuto, perché alla ricerca dello scoop e del sensazionalismo militante.
Anni fa fui sottoposto da una loro giornalista, quand’ero Presidente della Regione, ad una lunga intervista, di cui alla fine misero pochi secondi. Non si può dire che fosse un’intervista, era semmai un interrogatorio a tratti fazioso, che mirava a a farmi dire qualcosa di sbagliato per inseguire una certa tesi. Non caddi in contraddizioni e dunque non venni considerato interessante.
Ovviamente l’attacco alle Speciali sul Corriere aveva un uso strumentale. Serviva cioè a segnalare gli intollerabili privilegi delle autonomie speciali per dire no alla famosa autonomia differenziata per le Regioni a Statuto ordinario, di cui si discute in questo periodo.
Non sarà la prima e neppure l’ultima volta che le Speciali finiranno nel tritacarne e ormai ci ho fatto il callo.
Intendiamoci: questo non significa affatto non accettare le critiche e fare autocritica sulle cose che non vanno.
Passo ore intere ad occuparmi di questioni che non funzionano come dovrebbero e la nostra Autonomia, che è assunzione di responsabilità, dovrebbe essere più efficiente ed efficace. Ma questo non potrà mai voler dire buttare via l’acqua sporca con il bambino.
Ogni difesa non deve avvenire in modo meccanico e per partito preso, ma è intollerabile anche il suo opposto, fatto di attacchi gratuiti, ripetitivi e pieni di rancori. E ogni difesa, anche quando si trasforma in attacco contro polemiche faziose, deve avvenire contando su di una comunità valdostana coesa su certi punti fondamentali. Spesso, però, i nemici dell’Autonomia ce li abbiamo in casa e li vediamo in azione tutti i giorni e diventano loro complici coloro che con il silenzio o l’indifferenza finiscono per diventare - lo ripeto - conniventi.
Spesso c’è chi tace, purtroppo, perché ha perso per strada la cultura autonomistica, che dovrebbe essere un patrimonio comune, sviluppato a diversi livelli di coscienza personale. Ecco perché bisogna trasmettere ai giovani, mai in una logica di indottrinamento ma di presa di coscienza, valori e idee di un autonomismo sano e della fierezza di essere valdostani. Un patriottismo buono di cui essere protagonisti e testimoni.
La consapevolezza politica sta su un piano ancora superiore, perché non è solo espressione di un amore per la terra natia e per un insieme di tradizioni e di valori identitari, ma un coinvolgimento nei meccanismi storici e giuridici che fondano le ragioni dell’Autonomia. Questo consente solidità di convinzioni e capacità di reazione e di coinvolgimento nel patrimonio di idee e di speranze da passare di generazione in generazione contro il rischio di oblio e dì disinteresse.
Ciò non significa passatismo o ricopiatura di quanto già fatto, perché l’Autonomia è elemento dinamico ed è una continua interlocuzione interna e soprattutto esterna da seguire consci, come valdostani, dei nostri diritti e ancor di più dei nostri doveri.

Culle vuote

La questione demografica pesa e peserà come un macigno sulla società valdostana e mi pare che se ne debba avere piena coscienza.
Chi ha letto lo studio della Cattolica di Milano, che commissionai poco tempo fa al grande demografo Alessandro Rosina e alla sua squadra, ha avuto modo di capire quale baratro ci aspetti e non mi infilo in dati vari, tipo il disastroso tasso di fertilità.
Propongo un primo passaggio: “Senza una urgente inversione di tendenza della natalità e un rafforzamento anche nel breve e medio periodo della popolazione in età attiva, il rischio è quello di scivolare in una spirale negativa che porta ad un continuo aumento degli squilibri strutturali e indebolisce le possibilità di sviluppo economico e sostenibilità sociale”.
E ancora: “Gli effetti maggiori della riduzione della popolazione attiva si sentiranno nei prossimi 15-20 anni. Gli attuali trentenni entreranno al centro della vita attiva mentre gli attuali cinquantenni si sposteranno in età anziana. Per la regione Valle d’Aosta le proiezioni Istat 2020 illustrano una riduzione della popolazione attiva da 72.760 unità a 62.193 nel 2036 (Tabella 2.3 Scenario Istat 2020 Mediano). La popolazione anziana (65+) subirà invece un incremento passando da 30.220 unità nel 2021 a 37.095 nel 2036 (Tabella 2.6 Scenario Istat 2020 Mediano).
L’entità dell’indebolimento della componente della popolazione che maggiormente contribuisce alla crescita economica, finanzia e fa funzionare il sistema di welfare, lo si può ottenere facendo il rapporto tra tali due fasce d’età. In Francia la fascia 30-34 è circa il 90% della fascia 50-54, si scende attorno all’85% in Germania, al 75% in Spagna, al 67% in Italia, al 58% per la Valle d’Aosta”.
Aggiungo questa parte: “La consistenza delle generazioni che nasceranno dal 2022 in poi e il contributo integrativo che potrà arrivare dall’immigrazione, fanno parte del futuro non ancora scritto e che può rendere meno grave il crollo della popolazione attiva, aiutando a spostare la traiettoria della Valle d’Aosta verso gli scenari più favorevoli”.
Infine: “L‘inversione di tendenza deve combinare capacità di attrazione in coerenza con la vocazione del proprio territorio e investimento sulla qualità dei servizi che promuovono la realizzazione dei progetti di vita assieme a quelli lavorativi. È necessario, inoltre, agire in modo urgente, perché più ci si sposta in avanti nel tempo e più gli squilibri compromettono la struttura per età della popolazione indebolendo le capacità di risposta endogena. La denatalità passata, attraverso la riduzione delle potenziali madri, mette una ipoteca sempre più pesante sulla vitalità futura”.
Leggevo su Repubblica quanto scritto da un altro celebre demografo. Francesco Billari della Bocconi sulle scelte tedesche, evocate in parte anche nel nostro studio: “La Germania, un paese la cui popolazione sembrava destinata a diminuire sensibilmente all’inizio del nuovo millennio, è passata da 80 a 83 milioni di abitanti tra il 2011 e il 2021. Nello stesso decennio, l’Italia ha invece registrato un calo da 60 a 59 milioni di abitanti. Cosa possiamo imparare dal caso tedesco? Innanzitutto, la risposta tedesca è “bipartisan”, con l’accordo sostanziale dei due partiti più rappresentativi”.
Due sono le linee adottate: “La prima linea di politiche guarda al lungo periodo e si focalizza sulla natalità. Investire sui bambini e sui giovani, riconoscendone il valore anche sociale e alleviando i costi per le famiglie, che desiderano avere un numero di figli maggiore di quello che effettivamente hanno. Spendere di più su un’istruzione di qualità e inclusiva in una società multiculturale. Favorire la conciliazione tra lavoro e famiglia per le donne e non solo. Stabilire assegni monetari che accompagnino fino alla maggiore età. Di conseguenza, in Germania il numero medio di figli per coppia è salito da 1,4 del 2011 a 1,6 dieci anni dopo. Nello stesso decennio in Italia questo numero è calato invece da 1,4 a 1,25; pur positive, le misure più recenti come l’assegno unico non saranno sufficienti per un rimbalzo deciso nei prossimi anni.
La seconda linea di politiche guarda al presente e ai prossimi anni, e serve per “riempire i buchi” lasciati dal calo delle nascite negli anni passati, focalizzandosi sull’immigrazione. La Germania attrae lavoratori e migranti qualificati con le loro famiglie, con un picco durante la crisi dei rifugiati siriani nel 2015. Oggi è in prima linea con i rifugiati dall’Ucraina. Questa strategia basata sulle famiglie ha dato sia permessi per lavoratrici e lavoratori, rispondendo almeno in parte alle esigenze immediate del mercato del lavoro, sia linfa al sistema scolastico e al mercato del lavoro tra una decina d’anni con i loro figli. La strategia è stata accompagnata da maggiori investimenti nelle politiche di integrazione, più semplice quando invece di “braccia” si attirano famiglie”.
Sarà bene, anche da noi, rifletterci per tempo e prima che sia troppo tardi.

Il tempo e il fare

Quando sono andato a scuola, mi hanno chiesto cosa volessi diventare da grande. Ho risposto “felice”. Mi dissero che non avevo capito l’esercizio e io risposi che loro non avevano capito la vita.
(John Lennon)

Non avere tempo da perdere fa parte, nel mio caso e non sempre è positivo, di un’eredità paterna, che so essere a sua volta ereditata.
Dico che non so se sia sempre un bene questo affaccendarsi, perché in fondo esiste qualcosa di eccessivo nel riempire gli spazi, avendo anche l’ozio come spazio alternativo su cui bisogna riflettere con attenzione. Forse ci vuole una via di mezzo come sinteticamente espresso da Erich Fromm: “Da solo, il lavoro a ritmo ossessivo ridurrebbe gli esseri umani alla follia esattamente come l'ozio completo; grazie alla combinazione dei due elementi, essi riescono a vivere”. Già, come tante altre cose, la via mediana.
A questo, in questo periodo in cui misuro di più il tempo che passa, cercherò di uniformare in modo più compiuto la mia vita, facendo gli scongiuri perché certo non abbiamo nelle nostri mani i nostri destini, se non per una sola parte. Il tempo è una strana cosa e ogni giorno constatiamo quel che si dice nel celebre libro di Lewis Carrol:
“Alice: «Per quanto tempo è per sempre?». Bianconiglio: «A volte, solo un secondo»”.
Da giovane non ci pensi, ritenendo - e per molti che ho conosciuto si è rivelata un’illusione - di avere di fronte a sé uno spazio ampio. Poi i decenni galoppano e lo fanno sempre più in fretta, cosicché ad un certo punto risulta ancora più vero, quando ti inoltri molto avanti, quanto scritto da Mark Twain: “Tra vent’anni sarai più infastidito dalle cose che non hai fatto che da quelle che hai fatto. Perciò molla gli ormeggi, esci dal porto sicuro e lascia che il vento gonfi le tue vele. Esplora. Sogna. Scopri”.
Mi sembrano a qualunque età dei buoni propositi, che possono avvenire andando chissà dove o restando anche nella propria stanza. Mi ha sempre colpito, avendolo amato come autore da ragazzino, la capacità di raccontare storie di quel bizzarro personaggio che fu Emilio Salgari. Pur ambientando le sue opere nella giungla indiana, nei deserti africani, o nei mari delle Antille, Salgari non aveva mai viaggiato fuori dall’Italia e scrive le sue storie documentandosi su atlanti e libri cercati in biblioteca, con ricerche approfondite e piene di curiosità.
Tutto comunque resta legato al futuro, come sempre e per fortuna ognuno di noi è un pezzo di un insieme più vasto e ognuno lascia qualcosa di sé nomi non solo alle persone cui si vuole bene.
Lo scriveva Karl Popper: “Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte”.
Già, questo avvenire insondabile che mischia speranze e preoccupazioni. È sempre stato così e altri prima di noi lo hanno affrontato.
Contano i legami, scrive Jorge Luis Borges: “Non sai bene se la vita è viaggio,
se è sogno, se è attesa, se è un piano che si svolge giorno
dopo giorno e non te ne accorgi
se non guardando all’indietro. Non sai se ha senso.
In certi momenti il senso non conta.
Contano i legami”.

Chi meno sa, più pontifica

Forse, se dovessi fare un bilancio di tanti anni di attività politica, un rebus irrisolvibile è quello di come diavolo sia possibile che ci sia chi, in questa attività cosi decisiva per le sorti del bene pubblico, si esprima su argomenti vari, dimostrando di non conoscerli affatto o solo in modo superficiale, senza farsene per nulla un complesso. Anzi, come ha annotato un mio caro amico con mirabile sintesi, esiste quasi un rapporto inverso da esaminare con attenzione: chi meno ne sa, più pontifica.
Non credo che questo atteggiamento sia solo figlio del crescente populismo, cioè di un atteggiamento superficiale di chi miri in primis a piacere agli elettori, cavalcandone gli umori senza pensare mai troppo alle conseguenze e neppure naturalmente ai contenuti. Il fatto che spesso questo comporti successi personali è aspetto deprimente di una democrazia che ha certi bug che la rendono in certi casi imperfetta, benché insostituibile.
Purtroppo questa logica del parlare a vanvera finisce per essere una sorta di normalità, che ho visto all’opera molte volte, partecipando a discussione in assemblee elettive o a riunioni politiche in cui tu ti presenti dopo aver studiato e approfondito una questione e - nel nome della legittima libertà di espressione - c’è chi interviene dimostrando superficialità o assenza di conoscenze sul tema affrontato. Eppure - apriti cielo! - ti spiega e ti legge la vita e disegna scenari improbabile o ridicoli sull’argomento su cui ci si confronta.
Spesso in più - ho visto alcuni oratori esibirsi in questo modo - quel che loro leggono non è affatto farina del loro sacco, ma di qualche scribacchino (ghost writer) che prepara interventi che loro si limitano a leggere, talvolta persino in modo inefficace se non sgraziato. Vien persino da sorridere in certe circostanze e sovviene una filastrocca infantile: “Pappagallo ripetente, che va a scuola e non sa niente ... la lezione non la sa, all'inferno finirà!”.
L’esperienza insegna che controbattere risulta inutile, pur avendo dati alla mano e spiegazioni precise sui punti. Lui sa (o almeno - come dicevo - segue quanto qualcuno gli ha scritto) e tu no e purtroppo conta poco che ti caschino le braccia di fronte alla vuota prosopopea, quando l’ignoranza (nel senso di non conoscenza ma pure di personale vuoto culturale o intellettivo) viene spacciata per preclara verità.
Capita in altrettanta maniera evidente con chi in interviste date ai giornalisti approccia questioni complicate, che si evidenzia come non conosca, indicando però con grande sicumera quale dovrebbe essere la strada da seguire in barba a chi su certe carte ha sudato e almeno ne conosce i contenuti.
Forse è questo il peggio in politica di chi fa politica o l’ha fatta o spera di farla.
Quest’ultima categoria è stata anch’essa oggetto di ripetute osservazioni. Li ho visti arrivare in politica, dopo un percorso in cui in genere la loro premessa era “politica e politici fan schifo”. Poi alle elezioni successive spuntano in lista come candidati duri e puri, pronti finalmente a mettere a posto le cose. Messi alla prova, certi polemisti si dimostrano poi imbattibili nella parte distruttiva, mediocri in quella costruttiva.
Certo è che la responsabilità di certe situazioni non è solo dei singoli soggetti, ma di chi li supporta e - scusate il banale gioco di parole - di chi li sopporta. Elettori compresi.
Vale per tutti noi quel che ha detto Rita Levi-Montalcini: ”Nella vita non bisogna mai rassegnarsi, arrendersi alla mediocrità, bensì uscire da quella "zona grigia" in cui tutto è abitudine e rassegnazione passiva”.

Il “fioretto” necessario

Vien da sorridere a pensare quando da bambino ti spiegavano la bontà del fioretto e cioè di un sacrificio per devozione, che in genere si assume - va detto - per ottenere qualcosa di importante in cambio.
Eppure il principio di impegnarsi in qualcosa, per ottenere un buon risultato, ha davvero un suo perché.
Ci pensavo mentre comincio a scrivere sul mio telefonino, attraverso il quale annoto qui giornalmente una parte dei miei pensieri. In realtà questo strumento digitale è diventato nella mia quotidianità una sorta di estensione di me stesso e la sua plurima utilità è indubitabile. Capita di scherzare con gli amici sul fatto di come in passato si vivesse serenamente, potendone fare a meno e quasi di si scorsa di come altrimenti si facesse nel concreto.
Tuttavia, sono il primo a rendermi conto - e lo farò anche senza fioretto - come sia giunta l’ora di ribellarsi ad una sorta di dolce schiavitù di una connessione che, passato un certo limite, ci…limita e ci isola dal resto del mondo, pur essendo quello digitale un altro mondo anch’esso pieno di opportunità. Ma con il rischio di essere eccessivamente assorbente e con il pericolo di dipendenza.
Per cui da oggi mi metterò di buzzo buono e eviterò eccessi, riponendo l’attirante strumento. È proprio nel giorno dei buoni propositi trovo sul Corriere una spinta, che si aggiunge a quanto già spingeva in questa mia decisione.
Scrive, come fosse una sentenza, Massimo Gaggi: “Per la prima volta dal 1932 l’IQ, il quoziente intellettivo degli americani, registra una contrazione: l’inversione del processo di crescita, costante per tutto il Ventesimo secolo, emerge da un’indagine vasta (quasi 400 mila test) e molto estesa nel tempo (dati raccolti dal 2006 al 2018) condotta dalla Northwestern University e dall’Università dell’Oregon.
Cali analoghi sono già stati registrati anche da diversi Paesi europei. Ci sono opinioni divergenti sulla validità di questi test che non pretendono di misurare l’intelligenza ma sono ritenuti un buon indicatore dell’evoluzione delle capacità cognitive. E qui le conclusioni dei ricercatori, che hanno individuato cali sensibili soprattutto tra i giovani di 18-22 anni, citano possibili cause legate alla rivoluzione digitale nella quale siamo immersi. Soprattutto i cambiamenti nell’apprendimento e nell’istruzione con una conoscenza che è sempre più basata su piccoli «bocconi» di informazioni: tweet, video brevissimi, problemi complessi affrontati con un meme”.
Confesso che nella mia decisione di tagliare in parte l’uso dei dispositivi elettronici discende anche Dak fatto semplice di come fare la morale al mio figlio dodicenne su questo rischi se poi io espresso eccedo.
Prosegue l’articolo: “L’uso distorto e incontrollato tra i giovani di tecnologie per altri versi utilissime è anche al centro delle preoccupazioni di Vivek Murthy, Surgeon General degli Stati Uniti, l’authority che dovrebbe avere il polso della salute del Paese. In questi anni ha lavorato molto sulle pandemie, ma non perde occasione per spiegare che la cosa che lo preoccupa di più è il deterioramento della salute mentale degli adolescenti: dall’aumento del 40 per cento dei suicidi al raddoppio dei ricoveri per casi di autolesionismo. Per Murthy questa è la punta di un iceberg fatto di crisi di solitudine, isolamento, bullismo fisico che si diffonde anche online e «l’immersione in un bombardamento informativo 24/7 che genera paura e ansia soprattutto nelle menti degli adolescenti che attraversano la fase più sensibile per la loro psiche: il periodo in cui si sviluppa il cervello, viene creata la prima rete di relazioni sociali, si formano il senso della propria identità e i meccanismi di autostima». In un’intervista al New York Times Murthy se la prende in particolare con la mancata regolamentazione delle reti sociali ma la sentenza l’affida ai giovani: «Quelli che sento mi dicono tre cose: i social peggiorano l’immagine che hanno di se stessi, deteriorano i rapporti di amicizia e creano dipendenza: non riescono a staccarsi»”.
Chi, come me, ha già un carattere acquisito e un background sulle spalle ha aggiunto il digitale ad una vita vissuta, chi invece oggi ci cresce rischia appunto di avere solo la vita digitale che gli mangi una parte sogni dell’esistenza reale. E forse un esempio di distacco, anche di noi adulti, dagli eccessi digitali può essere un esempio salutare. Ci provo.

L’inossidabile mammismo

Incomincio, a scanso di equivoci e per non apparire eretico, con segnalare la piena considerazione della sonorità e del significato profondo umano e sociale della parola “mamma”.
Esempio preclaro di parole che, nelle grammatiche delle diverse lingue, vengono definite come “onomatopee”.
La si considera, infatti, come il risultato dei primi suoni, direi i barbottii pronunciati dal bambino, per cui la prima vocale di facile pronuncia è la “a”, mentre le prime consonanti sono quelle nasali, “m” e “n”. L’origine della parola Mamma da suoni spontanei, unici per tutte le culture, si ricava dalla somiglianza di questa parola in lingue molto diverse tra loro: mamma in inglese è mom, in tedesco mama, in francese maman, in greco mamá, in russo mama, in no lo swaili mama, in singalese amma, in eskimese anana.
Fa impressione - e ho avuto prova di questo - come esista un fenomeno triste e assieme commovente che colpisce chi stia per abbandonare la vita e evochi negli ultimi istanti la mamma che li ha fatto nascere.
Ma esiste, rispetto ai giusti sentimenti, anche una sorta di stortura e cioè il mammismo, che è sicuramente un male italiano. D'altra parte, la letteratura, la poesia, il cinema e tante, forse troppe canzoni ci ricordano che non c'è Paese al mondo che abbia tanto esaltato la mamma nei secoli.
Se già questa realtà è facile da dimostrare, pur a a qualche rischio
stereotipo, mancava solo un nome che lo definisse. E questo arrivò nel clima effervescente del secondo dopoguerra dopoguerra, quando si cominciò a guardare con piglio sociologico ai pregi e ai difetti dell'identità nazionale. Fu infatti nel 1952 che dalla penna dello scrittore calabrese Corrado Alvaro uscì per la prima volta una parola che si dimostra intraducibile nelle altre lingue ed è già un indizio: la già citata “mammismo”.
L’esperienza europea in questo è senso è stata illuminante in un mondo di stagiaires che rendono Bruxelles una città giovane e dinamica. Solo in questi ultimi anni gli italiani (e questo vale anche per i valdostani) iniziano a liberarsi del rischio di non muoversi per eccessi di legame con la famiglia di origine, quanto già da tempo i nordici - compresi i Paesi del famoso allargamento - facevano con un taglio del cordone ombelicale che significava libertà e autonomia personale.
Insomma liberarsi dal mammiamo vuol dire anche avere meno mammoni. Ma certo le categorie sono sempre in evoluzione e così scrivono Ulisse Mariani e Rosanna Schiralli, nel loro “Nuovi adolescenti, nuovi disagi”: “Se i vitelloni rappresentavano l'anima grezza e un po' sguaiata di una classe di giovani alle prese con la ricostruzione del dopoguerra e i mammoni quella impaurita e recalcitrante della generazione successiva di fronte a una società troppo complessa e dispersiva, i bamboccioni si pongono in posizione intermedia: dei vitelloni hanno lo spirito edonista, dei mammoni lo stesso adagiarsi in seno ai benefìci offerti dal vivere nelle case dei genitori”.
Già i discusso “bamboccioni”, che sono nient’altro che giovani adulti che invece di rendersi autonomo continua a stare in casa coi genitori e si fa mantenere da loro. Collegamento per essere onesti con certa triste precarietà, ma anche - e torniamo all’inizio - con il mammismo italiano.

La vernice non è politica

L’idea che per attirare l’attenzione su temi nodali per la nostra umanità si scelga ormai troppo spesso la strada di manifestazioni clamorose ci può naturalmente stare. Viviamo in un sistema informativo in cui chi sa gridare forte si fa sentire di più, ma penso che ci siano limiti da non valicare.
Scrive Francesco Bonami sul Foglio con riferimento a chi sceglie di sfregiare i beni culturali con vernici varie: “La domanda che il sindaco Dario Nardella ha fatto all’attivista di Ultima Generazione “Ma che cazzo fai ?!” non è cosi inopportuna e nemmeno è così semplice rispondere. E’ una domanda legittima per la quale non avrebbe dovuto nemmeno scusarsi . E’ d’altronde la stessa domanda che qualcuno avrebbe voluto fare, il 12 marzo del 2001, a quei talebani che con le mine e le cannonate buttarono giù i giganteschi Buddha della Valle di Bamiyan in Afghanistan, scolpiti dentro la montagna fra il sesto e settimo secolo dopo Cristo. Cosa c… stavano facendo e perché lo hanno fatto? Secondo me, non lo avevano ben chiaro né i talebani né i disobbedienti civili o pseudo attivisti . In entrambi i casi c’è e c’era una confusa sproporzione fra azione dimostrativa e risultato finale. I talebani consideravano i Buddha un incitamento all’idolatria, ma nel 2001 di buddisti in Afghanistan non c’era più traccia. Ultima Generazione considera Palazzo Vecchio e altri obiettivi il simbolo di un potere che contribuisce a distruggere il pianeta”.
Sembra una specie di processo imitativo che si espande con una logica perversa di chi la combina in maniera più eclatante. Cosa si pensa di fare da noi? Forse dipingere il Teatro romano o l’Arco d’Augusto ad Aosta? Magari schizzare di vernice il Cervino o coloriamo le acque del Lago blu?
Beffardo Bonami: “Paradossalmente più efficace, magari, sarebbe andare a bucare le gomme a tutte le vetture posteggiate dentro la fabbrica di qualche scuderia automobilistica, ma lì forse non troverebbero quell’emotivo pezzo di pane di Nardella, bensì dei robusti signori addetti alla sicurezza che, prima di sapere le loro motivazioni, probabilmente li riempirebbero di botte assumendosene le conseguenze cliniche e penali. Non voglio certo paragonare i gesti pseudo goliardici di Ultima Generazione alle azioni pseudo criminali dei talebani, la vernice alle cannonate. Desidero però sollevare una questione sul valore delle cose, della realtà e delle persone. Pare che quando chiesero al mullah Omar, leader supremo talebano, il perché della distruzione dei Buddha, lui rispose che quando alcuni archeologi tornarono a offrirgli molti soldi per consentire lo studio e il restauro delle sculture, pensando alle migliaia di afghani che morivano di fame, trovò immorale l’offerta degli archeologi interessati a delle cose inanimate e indifferenti alla vita umana. Ora, se questa fosse stata la vera motivazione, credo che torni complicato dargli del tutto torto. Il gesto iconoclasta mediocre o radicale che sia ci pone davanti a un dilemma, inutile perché irrisolvibile, ma reale”.
Più avanti esempi calzanti: ”Vale di più un ghiacciaio che si scioglie o un palazzo barocco del Borromini? Se per salvare le vite dei migranti che affogano o degli yemeniti che muoiono di fame si dovesse e potesse bruciare un Caravaggio, lo faremmo? E così con tante altre cose il cui valore può essere opinabile. Se un terremoto facesse venire giù Palazzo Vecchio, senza vittime s’intende, se ne potrebbe tirare su un altro, ma il lago che scompare o l’ignota persona che affoga caduta da un barcone non si possono più riportare in vita. L’11 settembre del 2001, cinque mesi dopo i fatti di Bamiyan, vennero giù le Torri Gemelle. Sembrò la fine di tutto e non è finito nulla, se non la vita di migliaia di persone. Questo per dire che a confronto con i veri disastri del pianeta e dell’umanità, terrorismo e attivismo sono, tragicamente e pateticamente, inutili. Fanno quello che fanno senza sapere perché lo fanno. La domanda è: davanti all’inutilità di questi gesti e davanti all’irreversibilità di molte tragedie noi, proprio noi, che c… facciamo?”.
Già, gesti inutili e penso pure nocivi alla “causa”, vista la legittima reazione dell’opinione pubblica in larga maggioranza verso chi sporca i beni culturali per protesta. Per questo tengo per Nardella e non per la segretaria del Pd Elly Schlein, che in TV ha detto dell'imbrattamento della facciata di Palazzo Vecchio: “Al di là del metodo scelto che posso non condividere, non dobbiamo fare l'errore di guardare troppo il dito e non la Luna. Stanno solo chiedendo di ascoltare la scienza”.
Usino altri metodi!

La Svizzera trema

Nell’immaginario collettivo la Svizzera, anche se può essere considerato uno stereotipo, resta il Paese delle banche sicure e tornerò sul punto.
Certo per noi valdostani è ben altro: è e resta uno Stato alpino intriso di quel federalismo che consideriamo il modello politico-istituzionale di riferimento. I padri fondatori della nostra Autonomia lo hanno scritto in tutte le salse.
Ma la storia comune, per via del confine così poroso nel corso dei secoli, ha avuto tappe grandiose. Ne cito due che attraversano il tempo: dalla possibilità cinquecentesca un po’ fumosa di una Valle che scegliesse la Svizzera per il proprio destino, ma rimase con Casa Savoia, al concreto lavoro comune con i fondi Interreg del presente quadro di cooperazione transfrontaliera con la Svizzera.
Certo per noi in più la chiave di lettura è il rapporto amichevole con i vallesani, sia francofoni che germanofoni. Un Santo valdostano in comune, San Bernardo di Aosta, con il simbolo del Colle del Gran San Bernardo e del suo Ospizio. Per non dire del Cervino e del Monte Rosa, compreso il comprensorio Valtournenche-Zermatt con le future progressioni verso Ayas e le terre dei walser. C’è poi la passione per le reines che ci lega, così come il patois e i vitigni antichi.
Vero è che ogni tanto capita di notare in certi amici svizzeri una certa sufficienza, come se il loro modello elvetico fosse il meglio possibile e la comparazione ci vedesse sempre perdenti, anche se viene quasi sempre detto sul filo dell’ironia.
Ecco perché mi incuriosisce la riflessione in corso dopo la botta della crisi del Credit Suisse.
Scrive il direttore del Corriere del Ticino, Paride Pelli: “Lasciamo da parte, solo per un momento, le infinite considerazioni tecniche e le analisi macroeconomiche, finanziarie e manageriali che in questi giorni stanno inondando i media di tutto il mondo e continueranno a farlo. Torniamo invece alla nostra identità, al nostro cuore di svizzeri e di ticinesi, ai nostri ricordi d’infanzia, e diciamoci la verità: quello che è accaduto nelle ultime ore è un inconcepibile disastro. L’unico modo per alleviarlo è che almeno sia di insegnamento per il futuro, anche se qui, purtroppo, si aprono molte incognite. Stiamo parlando - ça va sans dire - della vicenda Credit Suisse, la «compagnia di bandiera» del sistema bancario svizzero, il più elvetico tra tutti gli istituti e uno dei più antichi, certo il più rappresentativo: oggi finito nella polvere, ma c’è chi dice anche nel fango, e non senza qualche ragione”.
E ancora: “Ci vorrà tempo per risalire la china e tornare a guardarci, e a farci guardare, con una certa considerazione. Quando un simbolo nazionale – perché a tutte le latitudini tale era Credit Suisse – collassa in questo modo, non si può far finta che si tratti di una sferzata di vento passeggera che ha fatto crollare un edificio già malmesso di suo. Certo, ci siamo risollevati dal fallimento di Swissair - che era stata per lunghi anni la miglior compagnia aerea al mondo, un esempio da imitare - dal salvataggio in extremis di UBS da parte della Confederazione quindici anni fa e ci risolleveremo anche da questo tracollo grazie alla resilienza tipicamente svizzera”.
Una coraggiosa scelta di autocritica:
“Ma, come si diceva, occorre imparare dagli errori che in questi giorni sono balzati sotto i riflettori. Sui passi falsi di Credit Suisse e la relativa frastagliata storia reputazionale della banca, lasciamo l’incombenza a storici ed economisti. Qui vogliamo parlare degli altri due aspetti: comunicazione e fiducia.  Circa la prima, tutti gli attori privati e istituzionali coinvolti nel naufragio degli ultimi giorni hanno dimostrato, chi più chi meno, di procedere a tentoni in un momento di altissima pressione. Probabilmente pochi si aspettavano uno tsunami simile e non era stata elaborata una strategia comunicativa capace di contenere con mano ferma le derive, non solo speculative, che abbiamo visto. Mai come al giorno d’oggi – un’epoca in cui cospicui patrimoni si possono spostare da una banca all’altra con un click sul telefonino – la comunicazione è anche sostanza. Esempi passati non ne mancano e anziché sperare che alcuni disastri non si ripetano più, sarebbe auspicabile comunicare meglio ai mercati le proprie decisioni, sapendo che ogni onda, in una tempesta del genere, nasconde un potenziale scoglio”.
Gli choc ogni tanto si dimostrano salutari quali occasioni per risvegliare le coscienze.

Benaltrismo e dintorni

Leggo su Twitter - terreno interessante per ricavare delle massime davvero sintetiche - un pensiero fulmineo e faccio un rapido “copia incolla”, perdendomi però nella fretta il nome dell’autore e me ne scuso.
Eccolo: “Oggi il benaltrismo - tecnica ambigua di spostare l’attenzione su qualcosa che a loro dire ‘è ben più grave’ - non sembra solo un disturbo cognitivo - l’incapacità di concentrarsi e analizzare quello specifico fatto - ma ha a che fare con la giustificazione dunque la connivenza”.
Già, è proprio così e la quotidianità c’è lo dimostra persino troppo spesso. Se parli della Russia e della evidente aggressione dell’Ucraina, ecco spuntare il filorusso che se la piglia con la NATO o con gli ucraini nel Donbass. Condanni i rigurgiti neofascisti negazionisti dell’Olocausto e uno annota polemico come la mettiamo con Stalin e i gulag. Critichi l’assistenzialismo nel Sud e spunta la polemica antisabauda dei Borboni buoni. Commenti alcuni risultati di calcio di chissà quale squadra ed ecco spuntare - per me juventino - la solita tiritera sui “frega partite”.
Ancora più preciso sul fenomeno che distorce ogni discussione è Stefano Bartezzaghi: Il "benaltrismo" è quell'atteggiamento che rifiuta di affrontare qualsiasi problema poiché ne trova sempre uno più grosso e importante. L'ipotesi che per ogni problema è sempre possibile trovarne uno più grosso e importante ha basi solo induttive e non può essere verificata: ma di fatto non è mai stato trovato un singolo caso che la smentisse. Che sia introdotto da un "Benaltro" o da un più leggendario "Non dimentichiamoci che" si tratta sempre del passaggio da un palo a una frasca, nei casi più giustificabili, da una pagliuzza a una trave. Se non è un modo per sviare un discorso sgradito, è comunque sintomo di nevrosi, di un eterno decentramento del focus, una bulimia del problematico che si può risolvere solo con ben altro che una battuta di spirito”.
Si fotografa così, in poche frasi, la passività, l’indecisione dell’uomo d’oggi, quando si impantana nelle scelte, rimandando prese di posizione chiare nelle decisione. “Prendere posizione” su questioni puntuali diventa un rimando a problemi diversi, che magari sono affini in una lotta al rialzo che può apparire infinita e diventare - anche se l’espressione immagino sia ormai politicamente scorretta - un dialogo fra sordi.
Ne scriveva con un certo pessimismo Italo Calvino: “Il problema è capirsi. Oppure nessuno può capire nessuno: ogni merlo crede d’aver messo nel fischio un significato fondamentale per lui, ma che solo lui intende; l’altro gli ribatte qualcosa che non ha relazione con quello che lui ha detto; è un dialogo tra sordi, una conversazione senza né capo né coda. Ma i dialoghi umani sono forse qualcosa di diverso?”.
Per questo - per la necessità empatia alla base di un dialogo - personalmente amo la chiarezza e mi fa piacere trovare interlocutori che non cincischiano, dicendo pane e pane e vino al vino quale sia il loro pensiero senza distrazioni o fumisterie.
Lo vedo anche in politica in chi tentenna per non dispiacere e tiene, sinché regge, un piede in due staffe. E questi equilibrismi raggiungono l’apice in chi, proprio per non prendere posizione, rilancia la palla fuori dal campo della discussione, cambiando scenario per non essere puntuale.
Talvolta vien da invidiare chi ha scelto di essere eremita e bisognerebbe fare - ma è ancora possibile? - come Albert Einstein: “Di quando in quando, ora mi ritiro per qualche settimana nella casa d’una tenuta di campagna, tutto solo, cucinandomi quel che mi occorre, come gli eremiti dell’antichità. Così noto con sorpresa quanto è lungo un giorno e quanto vano, perlopiù, l’affaccendarsi alacre e odioso che riempie il nostro tempo”.

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