Nel 1937, George Orwell fu colpito da un proiettile al collo durante la guerra di Spagna.
Il cecchino aveva mirato con precisione, ma il proiettile mancò l’arteria di pochi millimetri. Steso a terra, soffocando, Orwell pensò che fosse giunta la sua ultima ora.
Quel momento lo segnò per sempre. Era andato a combattere il fascismo, ma sul fronte scoprì un altro nemico: la menzogna. Orwell combatteva a fianco del Partito Operaio di Unificazione Marxista (POUM), un gruppo antistalinista. Fu testimone diretto delle brutali epurazioni e della propaganda diffamatoria condotte dai comunisti allineati a Mosca e dunque a Stalin. Vide uomini tradire in nome della giustizia e la stampa distorcere i fatti fino a cancellare ogni traccia della realtà. Quella ferita la portò con sé tutta la vita: una sottile cicatrice sulla pelle, profonda nell’anima.
Orwell, dopo aver sperimentato direttamente la guerra civile spagnola e le derive autoritarie sia del fascismo che dello stalinismo, mostrò nei suoi scritti (soprattutto in La fattoria degli animali e 1984) come i sistemi totalitari, di destra o di sinistra, tendano a convergere nella stessa logica di potere: controllo dell’informazione, repressione del dissenso, manipolazione del linguaggio e cancellazione della verità.
In questo senso, il suo messaggio è universale: l’estremismo, qualunque volto assuma, genera meccanismi di dominio simili. La rivoluzione che si trasforma in tirannia in La fattoria degli animali (1945) è una parabola esemplare: i maiali che inizialmente vogliono liberare gli animali dall’oppressione finiscono per instaurare un regime identico, se non peggiore, di quello precedente — “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”.
Anche in 1984 (1949), l’autore porta alle estreme conseguenze questa riflessione: lo Stato totalitario di Oceania, che controlla la mente e il linguaggio dei cittadini, non è né di destra né di sinistra, ma rappresenta la degenerazione di ogni ideologia quando essa si trasforma in strumento di potere assoluto.
Per lui, scrivere non era un mestiere: era un atto morale.
«In un’epoca di menzogna universale, dire la verità è un atto rivoluzionario», affermava.
George Orwell occupa un posto unico per la lucidità con cui ha saputo smascherare le menzogne del potere e denunciare la deriva totalitaria insita negli opposti estremismi politici.
Con la sua cicatrice sul collo e la passione nelle sue parole, ci ha avvertiti, affinché non potessimo mai dire che non sapevamo.
Non posso, tuttavia, non evocare in parallelo Alexandre Marc, nato Aleksander Markovitch Lipiansky a Odessa, Ucraina(1904-2000), fuggito dalla Russia dopo la rivoluzione bolscevica, filosofo e militante federalista, fu un fervente oppositore degli estremismi, in particolare del nazi-fascismo e anche del comunismo.
Il suo pensiero si sviluppò nell'ambito del personalismo comunitario e del federalismo integrale, movimenti che nacquero in parte come reazione critica ai totalitarismi e alle derive dell'individualismo liberale.
Marc e gli altri "anticonformisti degli anni Trenta" (come Emmanuel Mounier, con cui Marc collaborò inizialmente) rigettavano sia l'assolutismo dello Stato-nazione (visto come la radice dei nazionalismi e dei conflitti, e vicino alle ideologie fasciste/naziste) che il materialismo e l'oppressione della persona propri del comunismo (nella sua versione sovietica).
La sua proposta di federalismo integrale mirava a superare lo Stato onnipotente e centralizzato, ponendo al centro la persona con le sue comunità naturali e la sua dignità, attraverso una struttura politica sussidiaria e pluralista che evitasse la tirannia, sia di destra che di sinistra.
Questa opposizione si colloca nel suo impegno per la costruzione di un'Europa unita e pacifica, vista come l'unica via per superare gli orrori della prima metà del XX secolo, alimentati dalle ideologie totalitarie.
Pensieri che mai come ora risultano decisivi nella lettura dell’attualità.