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04 nov 2025

Pasolini e l’autonomismo

di Luciano Caveri

Pier Paolo Pasolini è stato ricordato in questi giorni per un tragico anniversario.

Ero poco più di un ragazzo, quando fu assassinato nella notte tra l'1 e il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia, vicino a Roma.

Ricordo bene quell’episodio di cronaca nera di cinquant’anni fa di cui fu vittima, che colpì per la violenza inferta e per la scomparsa a soli 53 anni di un intellettuale eclettico, grande osservatore della realtà del dopoguerra.

Occupandomi delle minoranze linguistiche negli anni successivi durante il mio impegno politico, scoprii le sue poesie in friulano e il legame profondo con quella sua comunità di origine.

Traggo dal sito “Teche friulane” un articolo di Gianfranco Scialino che mostra l’interesse sui temi autonomisti di Pasolini: “Il dibattito sull’autonomismo si surriscaldò nell’immediato secondo dopoguerra, precorrendo e accompagnando i lavori dell’Assemblea Costituente e della Commissione dei Settantacinque, conclusisi con la redazione e con l’approvazione della Costituzione della Repubblica Italiana, in vigore dal primo gennaio 1948.

L’articolo 116 riconosce forme di autonomia speciali per cinque regioni: Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta e Friuli-Venezia Giulia, dove solo nel 1964 si ebbe l’attuazione del dettato costituzionale.

Poco più che ventenne, Pier Paolo Pasolini partecipò al confronto delle idee ed entrò nel vivo dello scontro politico fra i diversi schieramenti, facendosi notare per l’acutezza delle analisi“.

Pier Paolo Pasolini visse il Friuli non soltanto come una terra d’origine, ma come un laboratorio umano e poetico. A Casarsa della Delizia, nella lingua dei contadini, scoprì una possibilità di purezza: la parola friulana, nella sua semplicità arcaica. Un rivelazione che gli appariva come il segno di un mondo ancora integro, non toccato dall’omologazione della modernità. Quando, nel 1942, pubblicò in friulano Poesie a Casarsa, scriveva: “Mi pare che questa lingua sia un rifugio d’innocenza, un modo per salvare la poesia dal rumore della storia".

In quegli anni Pasolini non si limitò alla poesia. Fondò una piccola rivista, Il Stroligut di cà da l’aga, dove proclamava il valore della lingua friulana come spazio di libertà: “Noialtris volìn che la lenga di nestre int si tegni neta, ch’e no si fasi schiava di nissun altri.” (“Vogliamo che la lingua della nostra gente resti pura, che non diventi schiava di nessuno.”).

L’autonomia, per lui, non era una rivendicazione politica o nazionalista, ma un principio morale e culturale: il diritto di ogni popolo a esprimersi attraverso la propria voce. Nella breve stagione del dopoguerra, Pasolini cercò di tradurre questa idea in un progetto civile. Fu tra i promotori del Fronte della Gioventù Friulana, e in un manifesto del 1947 scrisse: “Il Friuli non è una nazione, ma una patria morale. Chiediamo l’autonomia non per separarci, ma per poter parlare con la nostra voce dentro la Repubblica”.

Dietro queste parole c’era la visione di un’Italia da rifondare dal basso, dalle sue regioni, dalle culture popolari che il fascismo aveva represso e che il centralismo rischiava di cancellare. L’autonomismo pasoliniano mirava a restituire dignità alla diversità.

Quando però, alla fine degli anni Quaranta, Pasolini dovette lasciare il Friuli — travolto dallo scandalo per la sua omosessualità e dalla diffidenza del suo stesso ambiente — quell’ideale si incrinò. Nelle lettere di quegli anni parla del Friuli come di una “ferita dolce”, un luogo perduto.

E in seguito, negli Scritti corsari, il discorso sull’autonomia si trasforma in una diagnosi politica: “Una volta le culture locali avevano ciascuna la propria autonomia di vita. Ora tutto è stato omologato. L’autonomia è morta non per colpa dello Stato, ma del consumismo, che ha distrutto le differenze".

Così, l’autonomismo che era nato come atto di speranza diventa in Pasolini una metafora della perdita. Il Friuli, da realtà concreta, diventa un simbolo di un’Italia che ha smarrito la propria molteplicità.

Immagino la sua amarezza per i ritardi nella concessione dell’autonomia alla sua terra, per altra inserita in quella strada creatura istituzionale che somma il Friuli con la Venezia Giulia, così come quel doversi allontanare per le incomprensioni patite.

Resta l’intuizione della dimensione quasi spirituale del diritto a restare se stessi, di parlare la propria lingua e di coltivare la propria cultura, salvaguardando i propri luoghi contro ogni potere statale che tende a uniformare.

E la lingua friulana, “pura come una fonte”, rimane per lui il segno di quella libertà originaria che l’Italia del tempo, avrebbe dovuto valorizzare e racchiuse invece e purtroppo in un regionalismo limitato e più amministrativo che politico.