Tranne i soliti lavoretti da ragazzo, ho cominciato a lavorare seriamente dopo l’estate della Maturità.
Nel 1979 “mi hanno messo in regola”, sommando anche le “marchette” di un’estate precedente, rivelatesi utili per la pensione come punto di inizio del calcolo.
Posso dire che da allora non mi sono mai fermato e sfido chiunque in un confronto faccia a faccia in una discussione sul famoso pregiudizio “i politici non lavorano”.
Nei diversi ruoli elettivi cui sono stato chiamato, ho sempre sgobbato e mi sembra giusto che sia così e la considero la assoluta normalità. Non tutti lo fanno, come in qualunque altra attività e ognuno risponde alla propria coscienza.
Ho incontrato in diversi ambienti abili pelandroni, che vivevano con assoluta pacatezza questa loro condizione. Io, come immagino tutti quelli che hanno un’etica del lavoro, sono sempre incuriosito e talvolta indignato di chi ha questa capacità di lasciarsi vivere senza fare un piega.
Invece, ho sempre ammirato chi - come mio papà veterinario di montagna - non demorde e lo dico ora che ho la consapevolezza del mio status di pensionato, anche se già lo ero da qualche anno.
L'espressione "horror vacui" è affascinante perché unisce la sua origine latina a significati che spaziano dalla fisica all'arte e - nel mio caso - alla psicologia.
Come significati letterale dal latino vuol dire "orrore del vuoto" o "terrore del vuoto".
Storicamente, l'espressione è associata alla fisica aristotelica (e ripresa da altri pensatori come Leibniz) che sosteneva che la natura "abhorret a vacuo" (la natura aborre il vuoto), ovvero che in natura non possono esistere spazi completamente vuoti.
Questa teoria fu poi smentita da esperimenti scientifici (come quelli di Torricelli e Pascal) che dimostrarono l'esistenza del vuoto.
La medesima espressione, a dimostrazione di essere poliedrica, là si usa nell’arte, nella decorazione e nell'arredamento, l'horror vacui definisce la tendenza a riempire compulsivamente e ogni spazio o superficie disponibile di un'opera o di un ambiente con dettagli, ornamenti, segni o figure, senza lasciare aree vuote. Pensiamo all’arte araba o al barocco.
Ma veniamo alla psicologia. Questo “vuoto” può descrivere la paura di fronte alla pagina bianca (non vale per me), al silenzio prolungato (idem come sopra) , oppure - e qui ci casco - al timore di non avere impegni e attività, come ho sempre avuto. Non che non mi stia organizzando…
Era di certo severo Umberto Eco, quando diceva in altro contesto ma assai espressivo: ”L’horror vacui è il segno di un mondo che teme il silenzio e la semplicità, e riempie ogni spazio di segni per paura del nulla”.
Meglio e del tutto pertinente Italo Calvino con il suo: “Il vuoto non è assenza, ma possibilità.”
Lo stesso scrittore osservava: “Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall'alto, non avere macigni sul cuore”.
Viene in mente Milan Kundera, autore ceco-francese, che ha esplorato la leggerezza in modo profondo e filosofico, in particolare nel suo capolavoro “L’insostenibile leggerezza dell’essere”.
Nel libro la leggerezza è un concetto centrale, contrapposta alla pesantezza dell’esistenza, e si intreccia con temi come l’amore, la libertà e il significato della vita.
Kundera, nelle premessero, cita esplicitamente Parmenide, celebre filosofo presocratico, per introdurre questo suo tema centrale. Nel prologo, scrive: ”Parmenide, nel sesto secolo avanti Cristo, si pose il problema se ciò che esiste è pesante o leggero. E concluse che la leggerezza è positiva, la pesantezza negativa".
In realtà, Kundera interpreta Parmenide in modo provocatorio e volutamente inverso.
Questo uno dei passaggi del libro: “La pesantezza è la radice di ogni cosa. La leggerezza è ciò che ci eleva. Ma è davvero così semplice? La domanda è: è meglio essere pesanti o leggeri? [...] L’assoluta assenza di un peso fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, lo fa volare verso l’alto, lo allontana dalla terra, dal terrestre, lo rende solo a metà reale, e i suoi movimenti sono liberi come insignificanti”.
In sintesi, per Kundera leggerezza e pesantezza non sono alternative, ma aspetti inseparabili dell'umano: la prima ci eleva ma svuota, la seconda ci radica ma schiaccia. Il romanzo non dà risposte, ma invita a "esplorare l'esistenza".
Ognuno, insomma, si trova libero di applicarlo alla propria vita. Milito per l’idea, per me in questo momento, di un passaggio dalla pesantezza alla leggerezza…