Non è mai facile ragionare su sé stessi e pensare a come ciascuno di noi si trovi cambiato rispetto al passato e sempre in progress “sin che morte non ci separi”, come si può dire scherzando.
È come se, nella nostra vita, si fossero state ere geologiche! Le ere geologiche sembrano immobili, ma in realtà segnano cambiamenti radicali: continenti che si spostano, climi che mutano, nuove forme di vita che emergono.
Allo stesso modo, molte trasformazioni personali avvengono lentamente, direi quasi impercettibilmente, finché non ci accorgiamo che siamo diventati diversi.
Nella geologia, ogni strato racconta un’epoca. Nella vita, ogni esperienza diventa un “livello” che rimane sotto di noi mentre andiamo avanti, e contribuisce alla nostra forma attuale. Siamo fatti di strati sovrapposti, che il tempo non cancella ma trasforma. Ci sono periodi in cui ci muoviamo su territori familiari, e i giorni si somigliano come strati di sedimenti. Ma sotto questa quiete si preparano trasformazioni profonde.
La geologia insegna che sotto la crosta stabile si muovono forze invisibili: tensioni, pressioni, accumuli che prima o poi generano cambiamento. Analogamente, anche dentro di noi operano desideri, domande, intuizioni, conoscenze, esperienze che agiscono silenziosamente finché non trovano la via per emergere.
Esistono per questo le discontinuità, gli eventi che cambiano di colpo il paesaggio. Nella storia del pianeta sono stati glaciazioni, impatti, eruzioni; nella storia personale possono essere incontri, crisi, scelte, dolori e gioie.
La maturità non è altro che la capacità di leggere questi strati, di riconoscere ciò che è rimasto fossile e ciò che invece continua a muoversi. Nessuna fase è inutile: anche quelle più aride, più tumultuose, più difficili hanno lasciato qualcosa di riconoscibile nel presente e ogni volta che pensiamo di essere arrivati, una nuova era comincia, quieta o impetuosa, portandoci più vicini a ciò che ancora non sappiamo di poter diventare.
Sergio Belardinelli docente di Sociologia dei processi culturali presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Bologna, già membro del Comitato nazionale di bioetica, ha scritto sui cambiamenti storico-culturali della nostra epoca e lo ha fatto di recente in un complesso articolo sul Foglio, che mi è sembra incredibilmente in sintonia con i pensieri poc’anzi espressi.
“È lecito supporre - così scrive - che il tema dell'identità delle persone sia in qualche modo collegato al concetto di tempo e che al variare dell'idea che abbiamo di quest'ultimo varia anche l'idea che abbiamo dell'identità? Io penso di sì, e per mostrare in che senso prendo spunto da una famosa citazione di Agostino: "Ho udito da un tale sapiente" - egli scrive - "non essere il tempo che il moto del sole, della luna e delle stelle, e non ne convenni per niente. Che, forse se si spegnessero i luminari del cielo, mentre continuasse a girare la ruota del vasaio, non ci sarebbe più il tempo da misurare quei giorni? Il tempo... è nell'anima, come attesa del futuro, come attenzione del presente, come ricordo del passato". Il tempo dunque non è soltanto tempo cosmico, il tempo del sole, della luna e delle stelle, ma è soprattutto "tempo interiore", tempo dell'anima. Martin Heidegger si spingerà ancora più oltre, facendo del tempo addirittura la dimensione fondamentale entro la quale si schiude l'essere nella sua interezza. L'essere è tempo: questo, in estrema sintesi, il senso complessivo del discorso heideggeriano”.
Molto sofisticati e intensi i pensieri di Belardinelli che così si concludono: “Ritornando al brano di Agostino che ho citato all'inizio, dovremmo comprendere che la nostra anima dipende proprio dalla capacità che abbiamo di armonizzare passato, presente e futuro, di vivere nel presente il futuro a cui aspiriamo sulla base del nostro passato. Guai a vivere in una soltanto di queste tre dimensioni temporali; avremmo a che fare con vere e proprie patologie dell'anima, che assumerebbero inevitabilmente anche la forma di patologie sociali”.
Un buon viatico.