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28 nov 2014

La coda di paglia

di Luciano Caveri

L'espressione «avere la coda di paglia» fa parte del bagaglio del linguaggio in uso nella mia famiglia e dunque mi capita di adoperarla quando è necessario. Indica, come noto, una persona che sa di avere sbagliato e non ha la coscienza a posto. A me viene in mente il mio atteggiamento per un certo periodo con Renato Brunetta. Era il 2001 - e ormai l'esempio può essere usato perché sono passati tanti anni e si può solo più sorriderne - ed i miei colleghi dei programmi della "Rai" decisero di fare un reportage sul fatto che lasciassi Roma da deputato, dopo quattro Legislature, mentre ero già europarlamentare. Con la troupe, guidata da Maria Luisa Di Loreto, l'appuntamento era davanti al celebre ristorante "Fortunato" al Pantheon poco dopo Mezzogiorno. Davanti al locale trovai Brunetta, già mio collega a Roma e in quel momento parlamentare a Bruxelles come me. Facemmo due chiacchiere e poi mi suonò il telefono: era Maria Luisa che stava arrivando dal Pantheon a due passi. Salutai Renato e andai loro incontro. Ci fermammo per accordarci per l'intervista di nuovo davanti al ristorante, dove non vidi più Brunetta. Per cui, improvvidamente e stupidamente, feci lo spiritoso, rivolgendomi ai colleghi: «Avete un giardino a casa vostra?». Alla risposta positiva la battutaccia: «in questo caso avreste potuto prendervi Brunetta, che era qui poco fa...». Non avevo ancora finito la frase che da dietro di una delle piante ornamentali in vaso di fronte al "Fortunato" spunta a pochi centimetri da me il faccione di Brunetta con i suoi grandi occhi. Fu il silenzio. Nei mesi successivi ebbi la "coda di paglia" ogni volta che lo incontravo nei Palazzi europei. Poi ritornò tra noi l'assoluta normalità. Ricordo che il collega veneziano Paolo Costa mi disse di avere avuto anche lui la coda di paglia, quando il figlio piccolo di fronte allo stesso Brunetta - amico di famiglia - lo apostrofò: «Ma tu sei un bambino vestito da grande o un bambino vestito da grande?». Gelo. E' interessante come l'"Accademia della Crusca" ricostruisce la storia del modo di dire: "La spiegazione tradizionale e largamente conosciuta si fonda su quella data da Costantino Arlia (in "Voci e maniere di lingua viva", Milano, P. Carrara, 1895), tratta da Fanfani e ripresa poi in molti dizionari etimologici, che faceva risalire l'espressione alla favola in cui una volpe che aveva perso la coda, per la vergogna, se ne sarebbe messa una posticcia di paglia. Molto più convincente la ricostruzione proposta da Ottavio Lurati ("Dizionario dei modi di dire", Milano, Garzanti, 2001) che fa riferimento alla pratica medievale di umiliare gli sconfitti o i condannati attaccando loro una coda di paglia con la quale dovevano sfilare per la città a rischio che qualcuno gliela incendiasse come gesto di ulteriore scherno. La coda naturalmente rappresenta il simbolo del degrado dallo status di persona a quello di animale. Questa origine sembra dar conto dei diversi e contemporanei stati d'animo che caratterizzano chi ha la coda di paglia: la consapevolezza del proprio errore, la vergogna e la diffidenza verso gli altri che possono rendere pubblica la colpa, aggravando il senso di umiliazione. Lurati cita un episodio specifico avvenuto nel Trecento e raccontato da Galvano Fiamma nella sua cronaca intitolata "Manipulus Florum": i prigionieri pavesi, sconfitti dai milanesi, sarebbero stati cacciati dalla città con una coda di paglia attaccata in fondo alla schiena". Aggiunge ancora la "Crusca", dopo aver ricordato le diverse teorie, compresa la favola di Esopo: "La stessa espressione è presente in molti dialetti italiani e trova corrispondenti anche nel tedesco e in forme gergali francesi; la locuzione inoltre rappresenta il nucleo da cui si sono formate forme proverbiali, come il toscano «chi ha la coda di paglia, ha sempre paura che gli pigli fuoco» (proverbio registrato dal Giusti) o il pavese «chi gh'a la cua d paia, l gh'a pagüra che la gh brüsa»". Interessante (anche se eviterei in francese di dire "la queue qui brûle...") e utile per usare in modo azzeccato l'espressione nella sua complessa storia, sapendo che le occasioni per adoperarla non mancano mai.