Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
27 apr 2025

Il bon ton in calo

di Luciano Caveri

Educazione e maleducazione. Il concetto o meglio i confini mutano nel tempo.

Noto un peggioramento della specie, segnalando al contrario come certi formalismi siano giustamente stati accantonati . Insomma, vivo su di una passerella tra passato e presente e ogni tanto mi turbo.

Un esempio personale è l’uso diffuso del “tu”. Da una parte - l’ho detto tante volte - mi fa piacere che in tanti mi trattino con confidenza, senza logiche di rapporto di chissà quale deferenza.

Però, sciolta questa logica atavica di paludamento verso una supposta “autorità”, capita davvero di vedere confidenze eccessive. Penso al diffondersi del proprio numero di telefono e questo comporta che sconosciuti ti chiamino o ti scrivano su Whatsapp in momenti inopportuni con tono di straordinaria confidenza.

Nessun vuole creare barriere, ma neppure immaginare che cessi ogni tipo di educazione nei rapporti e si trasformi in fulgida maleducazione del “tutto dovuto”.

Il bon ton è come un boomerang: se lo usi ti torna in mdietro. “Bon ton” deriva dai secoli in cui il francese era la lingua della diplomazia e dei ceti più elevati, quando l’etichetta e il galateo erano fondamentali nei rapporti sociali. La democrazia si era portata dietro certe regole e certi rompete le righe non sono una scelta esaltante.

Ricordo che da bambino, essendo un lettore vorace, leggevo anche la rubrica “Saper vivere” della rivista Grazia, cui mia mamma era abbonata. La curava Donna Letizia, lo pseudonimo di Colette Rosselli, scrittrice e pittrice, dal 1974 moglie di Indro Montanelli, nota al pubblico femminile proprio per i consigli di bon ton.

Ci pensavo, quando sono incappato nel solito arguto commento di Antonio Polito, che guarda a certi fenomeni con il giusto disincanto e senza pesantezza alcuna.

Posso solo dire che lo avevo notato! Dice Polito: “Non so se è un'abitudine che sta prendendo piede solo a Roma, ma mi capita sempre più spesso che qualcuno - a me sconosciuto, di solito erogatore di un servizio - mi si rivolga con un confidenziale «caro». «Ciao caro!», mi dice il tassista accogliendomi nella sua auto; «Ecco caro», sorride il barista mentre mi serve il caffè; «Prego, caro», risponde l'impiegato dell'ufficio pubblico al mio «Grazie». Si tratta di solito di persone giovani e carine, chiaramente motivate da intenti di gentilezza. Solo che la esprimono impropriamente”.

Caro si afferma e esce dai soliti binari.

Ancora l’autore: “Trovando forse obsoleto e aulico l'aggettivo «egregio», formale il sostantivo «signore», e burocratico un tradizionale «dottore», non sanno come altro rivolgersi a una persona più anziana che non conoscono, ma nei cui confronti vogliono mostrarerispetto, se non con un familiare «caro». «Caro», però, si dice alle persone care. E noi non ci conosciamo abbastanza per esserci cari. Oppure «caro» lo dice il boss in azienda a un giovane alle prime armi, in un'esibizione di sgradevole paternalismo. Ma qui non siamo né in famiglia né al lavoro. Il che rende il «caro» anche piu sgradevole”.

Su questo sospendo le citazioni dall’articolo.

Ma cito un personaggio singolare, che fu Gillo Dorfles, critico d’arte, filosofo, pittore e intellettuale italiano. Nato a Trieste nel 1910 e morto nel 2018 a 108 anni, Dorfles era un vero magister elegantiarum, anche se in senso moderno e intellettuale.

Il magister elegantiarum era nell’antica Roma una figura incaricata di sorvegliare il gusto e l’eleganza a corte (famoso quello di Petronio sotto Nerone). Dorfles, con la sua raffinata sensibilità estetica e la sua attenzione al bello nel quotidiano, ha svolto un ruolo simile nella cultura italiana del Novecento.

E diceva: “Una cosa è certa: se, a partire dall’asilo, si insegnassero ai bambini – a prescindere da ogni inaccettabile settarismo – le più elementari maniere di comportarsi (…) le cose andrebbero meglio, per lo meno non porterebbero a quella discrepanza tra le diverse provenienze familiari e sociali. Ossia tra le persone «comme-il-faut» (ossia che conoscono le buone maniere) e la grande maggioranza di coloro che non le conoscono o non le applicano affatto e di cui dobbiamo purtroppo subirci la presenza ubiquitaria”.

Sarà una visione un pelo classista, perché i maleducati non hanno censo, ma l’appello alle buone maniere resta.