Mi è già capitato qualche volta e devo dire che - sarà la saggezza, invecchiando - non riesco neppure a indignarmi più di tanto.
Come diceva con acume il Generale de Gaulle: ”In politica non si fa carriera senza lasciare dietro di sé una scia di nemici”.
Per cui più che sui singoli episodi credo che valga un ragionamento più vasto, che poi alla fine riguarda ciascuno di noi. Tutti prima o poi ci sono passati.
Soprattutto - non solo nel mio campo - perché c’è chi pensa che la politica sia denunciare le persone alle magistrature, scrivere lettere anonime, adoperare nella propria propaganda l’arma del dileggio.
Ne ho conosciuti tanti killer del genere e sono finiti tutti male, vittime di sé stessi e della foga di liberarsi degli avversari politici ( ma esiste anche il fuoco…amico di chi dal tuo schieramento ti spara alla schiena). L’uso di armi scorrette non solo non porta bene, ma è segno di pochezza.
L’espressione “macchina del fango” viene usata per descrivere una strategia mediatica o politica che mira a screditare una persona, spesso pubblica, attraverso la diffusione di accuse, insinuazioni, scandali o informazioni false. L’obiettivo non è necessariamente provare qualcosa, ma gettare discredito e dubbio sull’immagine pubblica del bersaglio.
Pare che all’origine ci sia un’espressione in inglese del giornalista e politologo americano Walter Lippmann, che definiva “muckrackers” (rastrellatori di fango) i giornalisti scandalistici o comunque i colleghi dotati di scarsa deontologia professionale nella costruzione delle notizie.
In Italia, sembra che il primo a usare il termine “fango” in quest’accezione sia stato il celebre Indro Montanelli che, per indicare gli anni Ottanta del Novecento, era solito adoperare l’espressione “anni di fango”, riferendosi al degrado morale e civile della classe dirigente di quel periodo, come scoperto con Tangentopoli (sui cui esiti la discussione oggi è aperta).
Invece, la più complessa espressione “macchina del fango” è diventata nota grazie al suo uso fatto dal giornalista e scrittore Roberto Saviano. Anche se in realtà pare essere stata inventata dal suo collega Giuseppe D’Avanzo. Fu lui a definire così l’insieme di presunti inquinamenti all’interno delle istituzioni all’inizio degli anni Duemila.
Ben più volgare, ma altrettanto interessante è l’espressione ”mettere la merda nel ventilatore”, frasetta colloquiale e espressiva, che significa scatenare uno scandalo, diffondere accuse o informazioni compromettenti in modo che colpiscano - talvolta tornando anche contro chi le diffonde - il maggior numero di persone possibile.
L’immagine è volutamente cruda: se metti della “merda” in un ventilatore acceso, si sparge ovunque, così come succede con lo scandalo o il discredito lanciato pubblicamente. Non c’è una persona specifica a cui si possa attribuire per primo la frase, trattandosi di una metafora d’uso comune in vari contesti e lingue.
In inglese, che oggi detta molto a tutti, esiste la frase simile: ”When the shit hits the fan”. Che suona ”Quando la merda entra nel ventilatore”, pudicamente traducibile con ”Quando la situazione si fa critica”.
Questa è attestata già dal 1940 negli Stati Uniti, e da lì si è diffusa anche in altre lingue, tra cui l’italiano, con una variante ancora più “attiva, appunto “mettere la merda nel ventilatore”, cioè causare deliberatamente il caos o il discredito e soprattutto colpire a casaccio.
Certo i colpevoli dello scempio, laddove si crea, vanno isolati. In una democrazia a capirlo devono essere in primis gli elettori.