Pacifisti e pacifinti manifestano e mi viene sempre in mente la traiettoria nelle posizioni di George Orwell, che passò da una certa simpatia per gli ideali pacifisti per poi virare verso una critica ficcante.
Le sue esperienze dirette, specialmente durante la Guerra Civile Spagnola a partire dal 1936 con la sua crescente consapevolezza dei pericoli dei regimi totalitari come la Germania nazista, lo portarono a un forte rifiuto del pacifismo come posizione politica praticabile in determinate circostanze.
Scrisse parole forti: “Il pacifismo è oggettivamente pro-fascista. Questo è elementare buon senso. Se intralci lo sforzo bellico di una parte, automaticamente aiuti quello dell’altra. E non esiste un modo concreto di rimanere al di fuori di una guerra come quella attuale. Detto in modo semplice: ‘chi non è con me, è contro di me.’”
Orwell credeva che il pacifismo fosse una posizione ingenua di fronte a un'aggressione spietata. Vedeva che i regimi totalitari non erano aperti a negoziati pacifici o alla persuasione morale e che la forza militare era necessaria per fermarli.
Per completezza ricordo che lui stesso fu nei suoi libri anche un severo critico del comunismo, in particolare della sua forma totalitaria rappresentata dall'Unione Sovietica con il regime di Stalin.
Questo per dire che su certa accondiscendenza del pacifismo che oggi vedo verso Putin e pure verso Hamas nella tragedia palestinese le critiche storicizzate di Orwell mantengono tutta la loro freschezza.
È una strana parola "pace", dal latino pax, pacis, che a sua volta trae origine dalla radice indoeuropea pak- o pag-, che significa "fissare", "pattuire", "legare", "unire", "saldare". Quindi, l'etimologia della parola "pace" suggerisce un concetto di stabilità, accordo e unione, in contrasto con la rottura e il conflitto impliciti nella guerra.
Ma si può trattare davvero con chi rifiuta la logica del pattuire?
Leggevo ieri sul Corriere la giornalista Giusi Fasano: “La parola pace è così abusata da sembrare ormai priva di tutta la sua potenza pratica, reale. Una parola diventata quasi superficiale e perfino divisiva, per usare un’espressione oggi tanto di moda. Perché c’è sempre chi è convinto di poterla chiedere in esclusiva negando agli altri il diritto di nominarla. Su fronti piccoli come su quelli grandissimi. Si litiga in nome di questa pace, «depotenziata» del suo significato, fra le fazioni che si fronteggiano a insulti sulla questione israelo-palestinese ma anche sotto le bombe sganciate sui tanti fronti di guerra nel mondo, mentre si cerca la famosa e sconosciuta «pace giusta». Come se quell’aggettivo — giusta — potesse rimediare a tutto ciò che è successo prima e a ciò che verrà dopo. Ma la pace è la pace, non si porta appresso nessun aggettivo. Ce l’ha insegnato, con un gesto piccolo ma grandioso, Yocheved Lifshitz, la donna israeliana di 85 anni rapita il 7 ottobre e rimasta prigioniera nei tunnel di Gaza per due settimane. Quando scese dalla camionetta dei suoi rapitori fece per andare incontro agli operatori della Croce Rossa che l’avrebbero presa in consegna ma all’improvviso di voltò verso uno dei miliziani armati, prese la sua mano e disse una sola parola: shalom, cioè pace in ebraico”.
Prosegue e mi piace l’approccio: “Per tramutarsi in realtà la pace «disarmata e disarmante, umile e perseverante» augurata al mondo da papa Leone XIV nel suo primo discorso, ha bisogno di diventare pensiero, e questo non ha nulla a che vedere con la fede. Non importa essere ebrei o musulmani, cattolici o copti, credenti o atei. Importa essere pervasi da quel sentimento, averlo in mente come imperativo etico. Farne un pensiero, appunto. Non soltanto un desiderio”.
Altrimenti, nel suo uso strumentale e fazioso, si butta via la parola, perché se ne stravolge il significato.