I dolori del mondo, più vicini e più lontani, irrompono come non mai nelle nostre vite.
Una volta si leggeva il giornale, si ascoltava la radio, si guardava il telegiornale.
Oggi la peggior cronaca ci segue come un cane fedele attraverso un flusso ininterrotto. Basta scrollare il proprio telefonino e scopriamo cosa avviene dietro casa o nel posto più remoto del nostro pianeta.
Piace l’orrore: il caso di Garlasco è il classico incubo estivo, che solletica i nostri peggiori istinti, fatti di una cronaca nera pervasiva con vecchie storie sepolte nella memoria che riaffiorano. Ma intanto ne tornano di nuove e l’esposizione mediatica tritura ogni elemento di Giustizia. .
La novità ora è la guerra. Sull’Ucraina ci stavamo facendo il callo, idem su Gaza e ora arriva l’attacco - che considero sacrosanto - all’Iran.
Sono esterrefatto di chi usa queste vicende a fini ideologici. Così abbiamo i filorussi e persino gli ammiratori di Hamas e ora addirittura i difensori degli ayatollah.
Spettacolo penoso ben visibile in TV, dove - per fare audience - si invitano i più cialtroni, stupidì e venduti con la complicità di conduttori che non valgono una cicca e aizzano il peggio con logica da circo.
Non bisogna rassegnarsi.
Leggevo sul Corriere Beppe Severgnini, che dimostra la fortuna di avere giornalisti e commentatori con la spina dorsale.
Osserva un fenomeno atroce e assieme così umano sin dall’incipit: “Gli esseri umani si abituano alla propria condizione. Tutto crea dipendenza. Il benessere e il malessere, la libertà e l’oppressione, la concordia e il conflitto.
Così come non apprezziamo d’aver vissuto in pace per ottant’anni, stiamo perdendo la capacità di percepire l’orrore della guerra. Lentamente, senza fretta: ma stiamo cambiando”.
Ragioniamoci sopra a questa sorta di assuefazione e al desiderio legittimo di vivere, almeno dei momenti, in una bolla che allontani quanto ci spaventa.
L’altra sera, in una festa di piazza, mi sono messo a ballare - ovvia banalità in una festa - e mi sono reso conto che c’era qualcosa di terapeutico rispetto proprio a quel flusso di robe brutte che ci martella ogni giorno.
Severgnini aggiunge: “Iran e Israele si odiano da molto tempo. Il primo — dieci volte più popoloso, settantacinque volte più grande — non riconosce il secondo, lo considera una «entità sionista» indegna di stare sulla carta geografica. La guerra, davanti alla minaccia atomica, era prevedibile. Ma ora che è scoppiata — vedrete — verrà presto metabolizzata, in Italia e in Europa. Un’altra guerra che va ad aggiungersi all’invasione dell’Ucraina e alla carneficina di Gaza. È come se, davanti a tanto pericolo, avessimo deciso che non c’è pericolo.
La mente si difende come può. Ci saranno vacanze e terrazze, viaggi e spiagge a consolarci. Non dobbiamo vergognarci, ma neppure negare quanto accade. Molti scelgono invece, più o meno consapevolmente, la rimozione. Altri, addirittura, s’arrabbiano con la realtà: arriva l’estate, come osi disturbare il mio meritato relax?
La gestione psicologica dei conflitti armati è un’impresa, per chi non li ha mai visti da vicino. La guerra è un abominio: uccidere altri essere umani per ottenere qualcosa. Eppure è un abominio con cui l’umanità convive da sempre. L’abbiamo reso romantico, leggendario, eccitante. Sui libri, nei film e in televisione la puzza della morte non si sente”.
Il finale illumina la scena con una luce sinistra: “La somministrazione quotidiana della violenza — nei media, sui social, nei videogiochi — funziona come un anestetico: non ne capiamo più la portata e le conseguenze. Accade lo stesso con la guerra: diventa una rappresentazione. Una fantasmagoria di foto, filmati, luci, colori, mappe, parole, grafici. Ma un missile che colpisce un palazzo non è uno spettacolo: squarcia, brucia, uccide. Secoli fa uomini e donne capivano la guerra perché la toccavano. Per noi è un esercizio mentale. Pericoloso. Perché, se andiamo avanti così, prima o poi la guerra arriva. Allora capiremo cos’è, ma sarà tardi”.
Triste profezia, che dovrebbe forse convincere certi pacifisti o presunti tali quanto difendere di fatto i malvagi sia una scelta abietta.