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24 ott 2025

No alla disinformazione russa

di Luciano Caveri

Mi fanno ribrezzo i profili filorussi messi in piedi dal fitto sistema di presenze che Mosca utilizza sui Social e che si accompagna – pure i sistemi informatici della Valle d’Aosta hanno subito degli attacchi – alle squadrette di hackers russi che sono spesati per danneggiare l’Occidente.

Questa serie di profili Social lavora in una costante controinformazione (che si affianca ai giornalisti italiani prezzolati con lo stesso scopo) e sono una specie di versione digitale della vecchia Radio Mosca in lingua italiana Radio Mosca – per chi non lo sapesse - era il nome con cui era conosciuta l'emittente radiofonica internazionale dell'Unione Sovietica, che successivamente ha cambiato nome in La Voce della Russia e attualmente è confluita nell'agenzia di notizie e radio Sputnik.

La redazione in lingua italiana iniziò le trasmissioni negli anni '30 (alcune fonti indicano il 1936 o 1937) e faceva parte del servizio estero dell'emittente. Mio papà mi raccontava che, con una radio a galena, ascoltava questa emittente assieme al fratello Antoine che, da fondatore della Jeune Vallée d’Aosta, era diventato militante comunista.

Dicevo dei Social. Leggo, da esempio, un post di tale Vladimir Volcic, che così attacca: “Ci fanno veramente ridere questi guerrieri da salotto italiani. Evidentemente vogliono un'altra cura come la si diede alla ARMIR. Questa volta sarà più rapida ma altrettanto dura vista la ridicola capacità di combattere di queste femminucce. A voi la scelta”.

Questo Volcic, ammesso che esista davvero e non sia un fake o meglio un troll, usa un tono sprezzante e offensivo. Si riferisce alla sciagurata spedizione italiana in Russia voluta dal fascismo con la partecipazione del Regio Esercito italiano, inquadrato nelle forze dell'Asse (principalmente tedesche), all'invasione dell'Unione Sovietica (Operazione Barbarossa), durante la Seconda Guerra Mondiale.

Ci fu un primo tempo con il CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia) nel luglio 1941, poco dopo l'inizio dell'attacco tedesco. E poi un secondo tempo, un anno dopo – citato dal russo - con l’ARMIR (Armata Italiana in Russia) con un numero totale di uomini che raggiunse circa 229.000. L'obiettivo di Mussolini era di rafforzare la sua posizione con Hitler, dopo le sconfitte subite in altri teatri di guerra e di partecipare alla spartizione delle conquiste.

L'ARMIR fu schierata sul fiume Don a protezione del fianco sinistro delle forze tedesche impegnate nell'assalto a Stalingrado. Fu travolta dalla massiccia controffensiva sovietica (Operazione Piccolo Saturno) del dicembre 1942 e gennaio 1943.

La spedizione si concluse con una ritirata drammatica e tragica (inclusa la celebre battaglia di Nikolaevka) attraverso la steppa russa, con perdite elevatissime dovute ai combattimenti, al freddo, alla mancanza di equipaggiamento adeguato e alla prigionia. Le perdite tra morti, dispersi e prigionieri furono enormi, decretando di fatto la fine dell'impegno italiano sul fronte orientale.

La famosa “ritirata di Russia” che mi veniva raccontata da Cesare (Cece) Quey, veterinario a Nus, che aveva vissuto quella tragedia da soldato. Rientrato vivo, alla domanda in quale reparto volesse entrare disse in modo beffardo “Reparto Prosciutti” e così finì in galera.

Ho letto diversi libri, che hanno testimoniato gli orrori della ritirata e momenti di profonda riflessione sulla condizione umana.

Penso a “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern e al suo racconto così umano: “Passo lo steccato, una pallottola mi sibila accanto. I russi ci tengono d'occhio. Corro e busso alla porta dell'isba, entro. Soldati russi, armati, stella rossa sul berretto. Io ho il fucile e li guardo, loro mangiano. Prendono col cucchiaio di legno dalla zuppiera comune, mi fissano col cucchiaio sospeso nell'aria. — Mnié khocetsia iestj — dissi in russo che vuol dire: — Datemi da mangiare. Una donna mi riempie il piatto di latte e miglio, faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla, mangio. I russi mi guardano, non fiata nessuno. Solo i cucchiai... Spasiba... Pasausta... Mi guardano uscire senza che si siano mossi. Così è andato questo fatto del febbraio 1943 durante la ritirata di Russia, e oggi a pensarci non mi sembra affatto strano: sono entrato, ho chiesto permesso. In quel momento non eravamo nemici”.

E alla frase di un suo soldato: “Sergentmagiù, ghe rivarem a baita? (Sergente maggiore, ce la faremo ad arrivare a casa?)”.

C’è poi “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi: “Ci pensavo poco fa, con la rivoltella in mano: la colpa va divisa. Un po' mia, un po' tua, un po' di tutta la gente del mondo: ciascuno ha fatto o non ha fatto qualcosa, a tempo debito, per arrivare alla guerra. Noi saldiamo il conto ora, amen. E gli altri? Speriamo che il nostro esempio serva almeno a chi verrà”.

Il giudizio degli storici sulla spedizione italiana in Russia (CSIR e poi ARMIR) è largamente concorde nel sottolinearne l'impreparazione e l'assoluta follia politica e strategica dettata da Mussolini, che si rivelò un disastro umano e militare e varrebbe la pena che i neofascisti contemporanei studiassero la vicenda al posto dello storitelling di un dittatore “che ha fatto delle cose buone”.

La storica Maria Teresa Giusti, autrice di saggi fondamentali come La campagna di Russia 1941-1943, sottolinea la mancanza di senso strategico e la carenza di mezzi: “ll filo conduttore della narrazione è l'impreparazione a un conflitto che si trasformò presto in una delle maggiori tragedie della storia dell'Italia unita. Nonostante la decisione di condurre la "guerra parallela" con i tedeschi risalisse al maggio 1940, l'Italia partecipò all'“operazione Barbarossa” con un corpo di spedizione male armato ed equipaggiato”.

Resta nella memoria collettiva l’immagine simbolica degli "scarponi di cartone”. Non che gli scarponi fossero stati fabbricati interamente in cartone, ma piuttosto era una descrizione della loro inefficacia con cuoio di cattiva qualità, che si bagnavano con la neve e poi gelavano, si sfaldavano o si crepavano facilmente, diventando rapidamente inutilizzabili, causando terribili congelamenti.

Volcic si vergogni a parlare di “femminucce” e guardi alla loro vergognosa campagna contro l’Ucraina, che ha causato mezzo milione fra morti e feriti fra le truppe di Mosca.