Avere a che fare con la morte è sempre un brutto affare e questo periodo credo che per tutti, con le visite ai cimiteri in memoria dei propri cari che non ci sono più, sia ben di più di un passaggio consuetudinario, intriso di una stratificazione di diverse tradizioni.
Diventa di fatto e sin da bambini - quando a me faceva una certa impressione per la logica lugubre connessa - una specie di formazione utile per interrogarsi su noi stessi e sulla fugacità della nostra esistenza.
Poi, più si cresce, e più le circostanze della vita, come un fiore cui cadano i petali, ci obbligano a fare i conti con parenti e amici che ci hanno lasciati e in certi casi la memoria può essere struggente.
La partecipazione ai funerali è sempre stata per me un’occasione in cui sono impacciato. Più tragico è stato l’evento che ha portato alla morte e più mi sento in difficoltà nel momento in cui bisogna esprimere a chi resta il cordoglio, evitando certi facili automatismi.
Ci sono occasioni in cui, nelle cerimonie religiose dedicate a giovani vite spente inopinatamente o a vittime di terribili circostanze, in cui penso alla difficoltà per un’officiante di esprimere verso chi resta sentimenti di speranza assieme ad una pietas verso perdite che spesso lasciano basiti per la serie di combinazioni che hanno cagionato la scomparsa.
Dalla profondità dello sviluppo della civiltà umana, con forme le più varie del culto dei defunti, emerge con chiarezza la speranza - coltivata dalla fede in qualunque religione - di un dopo di noi, gioioso o cupo, a seconda di come ci si è comportati in vita.
Quando visiti un qualunque Paese, specie nei musei archeologici o in siti dedicati al ricordo di chi non c’è più, ci si rende conto di come il passaggio verso un aldilà sia un’autentica fissazione e si accompagna il morto con riti consolatori per serbarne il ricordo e sempre nell’idea prima o poi di ritrovarsi in una dimensione diversa.
Molto in Occidente sta cambiando. La tomba come luogo delle sepoltura viene ormai in molti casi sostituita da una dispersione delle ceneri. La stessa dimensione pubblica, amplificata alla partecipazione della comunità di appartenenza, si sta modificando con meno esposizione del morto e con la riduzione di cerimonie pompose a momenti più rapidi per l’ultimo saluto.
Si sta entrando in una sorta di rimozione di tanti aspetti e la stessa dimensione Social sembra pian piano contrarre la partecipazione comunitaria e la logica in presenza, talvolta sostituita da formule rituali via Whatsapp, che sono un triste segno dei tempi.
L’allungamento della vita, che ci spinge in là e non è certo un male, pone credenti e laici di fronte a nuove sfide sul crinale della propria coscienza e della necessità di leggi che contemperino la vita e la sua sacralità con situazioni personali di disperazione e di dolore.
Parlo di vite che finiscono - per chi lo ritenga nella lucidità delle proprie scelte - perché prive di quelle caratteristiche che rendono l’esistenza un insieme di possibilità, emozioni, stimoli senza i quali è legittimo prendere in mano il proprio destino. Chi pensa che questo si limiti a cure palliative rischia di svuotare di significato ogni riflessione sul tema e banalizzare il dolore e la disperazione in tutte le loro varianti.
Restano le straordinarie capacità evocatorie che ci collegano a coloro che abbiamo amato o stimato. Una fotografia, un oggetto, un luogo ed eccoli risorgere nei nostri pensieri come raggi di luce che per un momento illuminano la cupezza del legame spezzato.