Non ricordo bene in quale degli esami universitari ho approfondito il tema nel tempo dell’Utopia. Filone di grande interesse, così che in seguito me ne sono occupato ulteriormente per conto mio.
Ne ho ancora qualche residuo in libri nella biblioteca domestica, che sono come naufraghi sopravvissuti in diversi spostamenti nelle case avvenuti negli anni.
Accumulare libri è un vizio, che richiederebbe spazi adatti e una capacità di ordine nell’archiviazione che invidio in alcuni amici.
Il termine utopia deriva dal greco antico e fu coniato dallo scrittore e umanista inglese Thomas More (Tommaso Moro) nel suo libro Utopia*, pubblicato nel 1516
Metteva assieme due parole greche: οὐ, vale dire “non" e τόπος, cioè “luogo", creando il ”non-luogo" o meglio “luogo che non esiste".
More usò questo nome per descrivere un'isola immaginaria con una società perfetta, organizzata in modo ideale dal punto di vista politico, sociale ed economico.
In fondo quel che in suo saggio bizzarro, come concetto, riprese nel 1891 Oscar Wilde ne "L'anima dell'uomo sotto il socialismo".
Scriveva, occupandosi dei tanti altri autori utopisti dei tre secoli precedenti, come Tommaso Campanella, Francis Bacon o Charles Fourier: ”Una carta del mondo che non contiene il Paese dell'Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo, perché non contempla il solo Paese al quale l'Umanità approda di continuo. E quando vi getta l'ancora, la vedetta scorge un Paese migliore e l'Umanità di nuovo fa vela”.
Anche se poi il termine utopia è entrato nel linguaggio comune per indicare sogni irrealizzabili o progetti troppo perfetti per essere concreti.
Ricordo la severità di un uomo, un industriale illuminato che pure in certi tratti era stato tacciato di utopismo nel secolo scorso, Adriano Olivetti: “Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande”.
Personalmente ho sempre letto con interesse certi pensieri utopistici di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865). Premetto che so bene che scrisse anche delle cose inaccettabili contro le donne e gli ebrei, ma sul federalismo aveva delle idee del tutto condivisibili.
Lo diceva anche con affermazioni come questo slogan: “Il federalismo è la libertà nella solidarietà”.
O in modo più diffuso in queste frasi, che andrebbero oggi facilmente aggiornate con esempi concreti: “Lo Stato unitario, monarchico o repubblicano, è la negazione della libertà, perché è la negazione del contratto. Si fonda sulla sottomissione, non sullo scambio; sulla gerarchia, non sull’equilibrio.
Che si chiami Napoleone o Assemblea nazionale, poco importa: appena c’è centralizzazione, c’è assorbimento dei comuni, delle province, degli individui in una personalità fittizia, lo Stato, che pretende di pensare, volere, agire per tutti”.
Per me il federalismo, già vivente in alcuni esempi ma all’anno zero (o forse -1) in Italia, mantiene elementi di utopia che servono per guardare con fiducia verso l’orizzonte.